Non può esistere un Paese moderno che scarichi tutto il peso della fiscalità sulla parte più debole della popolazione

In Italia gli evasori fiscali hanno sempre avuto tante e trasversali protezioni. Non c’è nulla di cui stupirsi: quando un fenomeno vale 100 miliardi di euro all’anno, non siamo di fronte a una semplice violazione delle norme, ma a una diserzione di massa dalla legalità. La democrazia trova da sempre il suo limite nella possibilità per qualsiasi elemento significativo sul piano quantitativo e omogeneo per interessi, di incontrare una rappresentanza, indipendentemente da considerazioni di carattere etico. Gli evasori fiscali nel nostro Paese sono milioni e perfettamente consapevoli di avere un interesse comune. Non solo. Se si guarda all’incidenza dell’economia informale sul Pil, si dovrà ammettere che non siamo semplicemente di fronte ad una devianza, ma di fatto ad un elemento strutturale della catena del valore nazionale. In altre parole, i minori costi generati dai mancati versamenti di imposte e contributi, concorrono alla riduzione generale dei costi di produzione. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, sono in tanti fra gli imprenditori italiani a godere direttamente o indirettamente del fatto che un segmento produttivo sia svolto in tutto o in parte al nero. Questo significa che è ancora più vasto l’insieme di quanti sarebbero ferocemente contrari a una politica di serio e determinato contrasto all’evasione fiscale. È quindi normale che ci siano partiti che raccolgono voti promettendo meno controlli e più condoni, motivando ogni volta la loro appassionata difesa dell’illegalità con l’emergenza del momento. Ciò che invece lascia increduli è perché non ci sia un partito capace di mettere la lotta al nero al centro della propria iniziativa politica. Veramente i lavoratori dipendenti non meritano di essere difesi, nonostante siano milioni? Se infatti in questo Paese possono ancora esistere scuola e sanità pubbliche, un qualche residuo di investimenti statali, qualche vestigia di ordine e amministrazione della giustizia, lo si deve quasi esclusivamente a loro. Loro che versano il 90 per cento dell’Irpef, che fra Iva e accise lasciano molto di ciò che resta, che tengono in piedi l’Inps con i propri contributi. Loro che pagano per tutti, anche per quei milioni a cui dobbiamo i 100 miliardi di euro annui sottratti alla collettività. L’impressione è che non sempre ne abbiano piena consapevolezza, ma che siano piuttosto vittime della retorica universale che alla parola “tasse” associa immediatamente la parola “impresa”, chiedendone immediatamente la riduzione. Sembra che in Italia siano tutti vessati dal fisco, tranne quelli che contribuiscono quasi in solitaria. Sembra che possa esistere un Paese moderno, con servizi complessi e concessi a tutti alle stesse condizioni, senza un prelievo fiscale significativo. Non è così, come dimostrano tutte le statistiche Ocse. È vero invece che alla lunga non può esistere un Paese moderno che scarichi tutto il peso della fiscalità sulla parte più debole della popolazione, senza che venga compromessa la tenuta sociale e infrastrutturale. Infatti cominciamo a collassare, anche per la difficoltà di compensare con il deficit le entrate mancanti. Se quindi la sinistra si chiede da dove ricominciare, la lotta per la fedeltà fiscale è necessariamente uno degli assi fondamentali. Significa parlare innanzitutto a chi volente o nolente paga fino all’ultimo centesimo ed è vittima di un’ingiustizia intollerabile. Poi a chi ritiene l’etica pubblica e la legalità valori non negoziabili, su cui costruire un futuro migliore per il nostro Paese. Conosciamo gli strumenti adatti e alcuni di questi sono stati già adottati con successo in altri Paesi. È solo questione di volontà e di coraggio, perché si tratta di scegliere con nettezza da che parte stare.

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Giovanni Paglia, è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

L’articolo di Giovanni Paglia è tratto da Left del 26 ottobre 2018


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