È la notizia del giorno: deposizioni, verbali, registrazioni e intercettazioni scaturite nella nuova recente fase delle indagini sono state ammesse dalla Corte d'assise di Roma.

Udienza Cucchi: «Tutte le integrazioni sono state ammesse», dice a Left l’attivista di Acad più assidua alle udienze del processo bis per la morte del giovane geometra romano, nove anni fa. È la notizia del giorno: deposizioni, verbali, registrazioni e intercettazioni scaturite nella nuova recente fase delle indagini sono state ammesse dalla Corte d’assise di Roma. La richiesta d’integrazione probatoria, fatta dal pm Giovanni Musarò, è relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, il quale ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ora si allunga la lista dei testi. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula nel processo per la morte di Stefano Cucchi nel repartino penitenziario del Pertini sei giorni dopo l’arresto per droga da parte dei carabinieri della Stazione Appia, cinque dei quali sono imputati, tre di accusati di omicidio preterintenzionale.

La Corte ha ammesso – ritenendole «temi di prova collegate a questo processo» – le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte dell’arresto, dopo il pestaggio, e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda. Probabilmente Musarò vorrà sentirli in una delle udienze di dicembre. «L’accoglimento delle richieste avanzate dall’Ufficio di Procura – ha commentato l’avvocato Eugenio Pini, legale del carabiniere Tedesco – consentirà alla Corte di Assise di vagliare ulteriori elementi che appaiono indubbiamente utili all’accertamento dei fatti». Tra le voci intercettate quella del piantone di Tor Sapienza: «Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato” (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io “carabinericchio” di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?» dice al telefono il carabiniere Francesco Di Sano parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta sul caso di Stefano Cucchi.

«Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile… io ho eseguito un ordine in buona fede»: nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull’annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. «Per un motivo “x” hanno voluto cambiare l’annotazione, io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi… se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui».

Così, «i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa». «Loro mi dicevano “non cambia nella sostanza perché è scomparso questo”». «Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla… ma il reato c’è per carità di dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano “no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”», conclude il carabinieri che era in servizio alla stazione Tor Sapienza dove Cucchi venne portato dopo alcune ore dall’arresto, già pestato per bene nella tappa precedente della via crucis, quella alla stazione Casilina, che si concluderà con la sua morte, “seppellito” in una stanza del reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma.

Fra testi in programma oggi, c’era il medico di famiglia di Stefano che ha ribadito alle difese dei carabinieri la sana e robusta costituzione del suo paziente, certificata nell’agosto, poche settimane prima del massacro. E l’epilessia, assieme alla magrezza, uno dei cavalli di battaglia di chi rappresenta gli imputati, non compariva da anni. Poi, nell’aula della prima corte d’assise, un perito della polizia ha spiegato la faccenda del verbale di fotosegnalamento alterato con il bianchetto, una delle magagne che ha iniziato a scavare delle crepe nel muro di gomma che fino ad allora aveva protetto i carabinieri.

Giuseppe Flauto, infermiere al Pertini, uno degli assolti del primo processo, ha ripetuto in aula i suoi contatti con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. «Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima». Poi l’ultimo giorno. «Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò». E la notte prima della morte: «Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più». Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. Una deposizione con parecchi particolari diversi da quelli ricordati nel 2009 che potrebbe essere usata per minimizzare le condizioni del detenuto-paziente. Per il legale di parte civile, la cartella clinica risulta compilata in maniera “strana” lasciando ipotizzare che sia stata compilata in un secondo momento. Per i medici il processo d’appello è ancora in corso.

A un’altra infermiera del reparto di medicina protetta, Stefano Cucchi disse di essere stato menato dai carabinieri, ma anche che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. Circostanza, già uscita nel primo processo e confermata oggi da Silvia Porcelli: «Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose “non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri”. Gli risposi “aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante”. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose “è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto”. Tutti gli infermieri del Reparto di medicina protetta del Pertini sentiti oggi come testimoni hanno confermato che quando arrivò «aveva occhiaie marcate e lamentava dolore lombo-sacrale. Stava nel letto, sul fianco, lo vidi in viso e aveva occhiaie marcate», ha detto Domenico Lobianco; e per la collega Stefania Carpentieri, Cucchi «al primo impatto aveva gli occhi cerchiati pronunciati di colore rosso cupo. Erano gonfi, potevano essere ecchimosi. E poi, Stefano era molto magro». Di una magrezza che non consentì di fargli delle iniezioni di antidolorifico per via endovenosa («Si rifiutava perché non accettava nulla che venisse somministrato per via endovenosa», ha detto una delle infermiere-testimoni) né al gluteo per mancanza di un’adeguata massa muscolare, optando invece per una somministrazione nel deltoide. E poi, nel farlo bere, si era optato – ha detto l’infermiera Rita Maria Silvia Spencer – «per delle bottiglie d’acqua bucate per mettere delle cannucce, visto che stava a pancia in giù». Al banco dei testi anche una volontaria del reparto medico, Amalia Benedetta Ceriello, che Cucchi le chiese una Bibbia e di «fare una telefonata al cognato perché disse era l’unico che gli era stato vicino quando aveva avuto dei problemi, per sistemare un cagnolino fino a quando sarebbe uscito dal carcere». Per le difese dei carabinieri sarebbe una prova che stava “bene” Cucchi.

Prossima udienza il 20 novembre per sentire una decina di ulteriori testimoni della lista del pubblico ministero.

Parrebbe finita bene, invece, la vicenda del carabiniere Casamassima, l’appuntato che con la sua testimonianza fece riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi. «Non ho mai perso fiducia nell’Arma e fraintendimenti sono stati chiariti. Tutto è bene quel che finisce bene», scrive in un post Riccardo Casamassima. «Oggi sono stato convocato presso il comando generale dove mi hanno comunicato che a breve sarò trasferito in una sede più confacente alle mie esigenze familiari. Sarò più vicino a casa e avrò più tempo per stare con la mia famiglia. (…) Grazie alle persone che mi sono state vicine. Grazie all’Arma dei carabinieri e grazie alle persone che ho incontrato oggi al Comando».

«Oggi in aula – dice Ilaria Cucchi – hanno sfilato gli infermieri del reparto detentivo dell’ospedale dove Stefano è morto nella noncuranza e nel disinteresse generale di tutti loro e tanti altri, che pare non abbiano notato niente di strano se non il fatto che lui era magro e scontroso. Non hanno notato, mentre lo visitavano, sul fondo schiena i segni delle fratture. Non hanno notato, quando tentavano di rianimare un morto, quel pallone enorme, il globo vescicale contente 1.450 cc di urina. Mentre gli avvocati degli imputati si affannano a gettare fango ancora una volta su mio fratello e sulla nostra famiglia. Comunque voglio rassicurare tutti sul fatto che Miky, la cagnetta di Stefano, sta bene ed è con noi, non è stata messa nel canile come è stato insinuato. Lei sta bene, anche se purtroppo il suo padrone è morto, massacrato di botte. Ma nessuno ha notato niente».