La sfida vinta di un nuovo film, Io e te, quando sembrava ormai impossibile. E la voglia di girarne un altro. E poi le passioni di una vita e le scelte giovanili per emanciparsi da Parma e dalla famiglia. Bernardo Bertolucci si racconta. Intervista pubblicata su Left del 20 luglio 2013

Intervista di Amy Pollicino pubblicata su Left del 20 luglio 2013

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Sarà il presidente della giuria della 70esima Mostra del cinema di Venezia (dall’8 agosto al 7 settembre) e di recente il sindacato dei giornalisti cinematografici italiani ha premiato Io e te con il Nastro D’Argento, designandolo film italiano dell’anno 2013. Due appuntamenti che hanno il sapore di un nuovo inizio per un maestro del cinema come Bernardo Bertolucci e che ci offrono l’occasione preziosa di questo incontro.

Bertolucci, come sta vivendo questa sua “nuova nascita”?

Sono riuscito a fare qualcosa che mi sembrava proibita ormai: un nuovo film. Così, dopo Io e te, molte cose si sono radunate intorno a me, la gente era sorpresa della mia scommessa. Avevamo fatto un piano di lavorazione molto lungo, nell’ipotesi che potessi lavorare solo tre o quattro ore al giorno, che mi stancassi. Macché. Ero uno dei primi ad arrivare e anche ad andar via. Perché questo set, a poche decine di metri da casa mia, era diventato il luogo dove ero riuscito ad arrivare e… ci stavo dentro come un topo nel formaggio.

Cosa cercherà in modo particolare nei film in concorso a Venezia?

Sorpresa e piacere. Non ho altre richieste da fare ai film. Cercherò chi mi farà “sentire di più”. Sarò presidente, ma non voglio tirarmi contro tutta la giuria finendo per esprimere solo la mia posizione. Insomma vorrei essere un presidente diverso da quelli che si sono visti negli ultimi vent’anni.

Non solo il cinema, ma tutta la cultura oggi vive un momento difficile in Italia, cosa fare per uscirne?

Prima di tutto, direi tornare a far sì che la cultura sia un bene e un patrimonio collettivo. Un bene di tutti. Non imponendola ma portando quelli che si può a sviluppare per la cultura quel sentimento di cui parlare oggi è forse come parlare fuori tempo. A chi avesse dei pregiudizi dico solo guardati indietro e capirai che cosa ha fatto la cultura in quei quattro o cinquemila anni che riusciamo ancora a intravedere. Sono completamente “allagato” da un’idea della cultura come trasmissione. Ma sono tutte cose che si dicono, poi come le realizziamo? Non lo so, io non sono un diffusore se non di ciò che mi appartiene.

Sta già lavorando a un nuovo progetto?

Ci sto girando intorno, un po’ come un moscone o una farfalla che ancora non ha capito su cosa si sta posando. C’è un’idea che ancora non ha trovato la sua forma. Perché ovviamente non basta un’idea se non le dai forma. Quando ho girato il Piccolo Buddha a Kathmandu c’era una zona molto vecchia, bella, popolare, e c’erano dei vasai che lavoravano all’aperto sotto un tendone per il sole. Con un piede muovevano un pedale facendo girare velocissima una ruota. Con le mani toccavano l’argilla e creavano il vaso. La forma nasceva e in un attimo si trasformava da vaso panciuto e basso in vaso altissimo con un collo che si perdeva in alto. Mi faceva venire in mente Marinetti, le poesie sulla velocità. Quest’immagine mi accompagna, specie ora che non trovo una forma che mi piace per la mia idea ripenso a questo usare le mani.

Con Io e te è tornato dentro uno spazio circoscritto, dove la bellezza e le emozioni dei due personaggi travolgono e commuovono. Quali temi le interessano oggi?

Non so bene dire qual è il tema di Io e te. Credo che per ognuno sia personale. Se un film mi scioglie dentro cose che erano un po’ pietrificate e che magari non sapevo di avere ancora, allora il sentimento, le emozioni che quel lavoro mi suscita mi fanno capire perché è stato fatto. Questo vale anche per un mio film, così comprendo quello che più profondamente ho voluto dire. L’emozione non è solo direttamente provocata da una situazione, da una storia, dai personaggi. Spesso è molto legata a chi ha fatto il film. Intuire che cosa ispirato quel regista è per me di stimolo, mi trasmette vitalità.

Quali sono i film che non le piacciono?

Sono quelli che uccidono la vitalità. I film che amo incrementano la mia energia creativa, mi fanno venir voglia di fare cinema. Quando Niccolò Ammaniti mi dette il libro che aveva pubblicato con Einaudi, Io e te, l’ho letto e tre ore dopo sapevo che quello era il film che avrei voluto fare. Altre volte c’è voluto molto tempo. Come nel caso de L’ultimo imperatore. Volevo girare un film tratto da quel bellissimo romanzo di Malraux, La condition humaine, che si svolge a Shanghai nel 1927. Ma a quel tempo, era il 1984, i cinesi non erano pronti ad accettarlo. L’ultimo imperatore era l’altra mia proposta e loro l’hanno preferita. Solo dopo che il film ha ricevuto tanti Oscar, i cinesi mi hanno proposto di tornare per realizzare La condition humaine. Io però di fare un altro supercolosso in Cina dopo che ci avevo passato un anno intero non me la sono sentita. Così sono passato prima dal Sahara, dove ho girato Il tè nel deserto e poi dall’India, dal Nepal, dal Buthan, in un mio viaggio di scoperta del buddismo tibetano.

Come è nata questa sua ricerca?

È iniziata così: “Voi pensate che Dio abbia creato l’uomo e basate la vostra religione su questo. Noi buddisti tibetani pensiamo che è l’uomo che ha creato Dio.” Coinvolgermi in una scoperta così emozionante mi ha portato al film Piccolo Buddha. Li vedo ancora questi monaci buddisti, scesi a valle, in fuga dal Tibet, in qualche monastero che hanno creato in India mentre discutono di logica. Uno è seduto e l’altro è in piedi, quello seduto dice: “Un bicchiere di acqua per un pesciolino è una casa, per un uomo è una bevanda. Chi ha ragione, il pesciolino o l’uomo?” E l’altro risponde: “Non ho mai sentito di una causa tra un pesciolino e un uomo”. E dicendolo si accompagna con un gesto (Bertolucci batte le mani, ndr): Tac.

Lei ha detto che vale un solo principio: cercare sempre la bellezza.

La bellezza, certo, se contiene anche altro. La bellezza può essere qualcosa di estremamente semplice. Ti sorprende e ti dà un godimento quasi totale. La bellezza è la poesia.

E come si può ancora dare alla poesia una possibilità di esistere?

Quella non sarà mai possibile estirparla, ci hanno provato ma non ci sono mai riusciti. Anche perché quando arriva la poesia, il potere non è così attento e sospettoso, perché le dà poco valore, mentre la poesia a volte è stata rivoluzionaria, spesso è stata la scintilla di qualcosa. La poesia era parte del paesaggio quotidiano in cui vivevo. Quando a mio padre piaceva qualcosa diceva sempre, “vedi com’è poetico?”. E poi mi ritrovo con la Morante, Moravia, Pasolini – avrò avuto diciotto, diciannove anni – e anche lì sento usare sempre questa parola, poetico e non poetico. Che poi ognuno la riempie con i significati suoi. Perché ecco vede, in questo momento, in questa stanza…

La cosa che colpisce di più vedendo i suoi film è la libertà di rappresentare. Come ci è arrivato?

Mi faccia un esempio.

Penso a Ultimo tango a Parigi e alla potenza di rappresentazione del rapporto fra uomo e donna ma anche alla messa in scena della dinamica emotiva del ’68 in The dreamers. In tutti i film dove prevale una componente intima c’è questa libertà nella rappresentazione che non si trova da nessun’altra parte. Sembra una sua dimensione personale.

Per fortuna il mio personale riesco a trasmetterlo ai miei attori che poi se lo rielaborano. Quando lei parla di libertà, si riferisce, credo, al tentativo che faccio sempre di ascoltare le mie pulsazioni e di essergli fedele. Questo un pochino viene dalla storia con mio padre che era ipocondriaco. Quando eravamo bambini, Giuseppe e io, lui era sempre preoccupato per noi. Ogni volta che in campagna ci si sbucciava un ginocchio lui diventava cupissimo. Dopo, e avevo già trent’anni, capii e gli parlai del suo continuo allarme, quando immaginava, se non eravamo ancora rientrati la notte, che fossimo morti in un incidente: “Guarda babbo che sei tu che mi uccidi in quella fantasia dove dici che io mi sarei fatto male, forse molto male. Sei tu che ci metti questa cosa”. Mio padre era mite ma ipocondriaco e aveva una continua paura di morire proiettandola anche sui suoi figli. A vent’anni, o forse ventuno, sono riuscito, non so come, a fare dei film, e per questo sono dovuto uscire dal teatrino familiare. E stato come rompere il bozzolo. Pensi che quando ho girato il mio primo film, La commare secca abitavo in via Carini con i miei genitori e dormivo ancora nella stanza mia e di mio fratello. Uscivo alle sette del mattino come un ventunenne che va all’università e invece andavo sul set. E andare sul set era entrare tutti i giorni in una specie di trance. Perché non riuscivo a capire come e perché ero riuscito a mettere su un film, e allo stesso tempo lo capivo fin troppo bene e tutto questo mi guidava nel farlo. Poi la sera tornavo a casa e in genere cenavo coi miei e mio fratello e poi andavo a dormire.

Le cose cambiarono con il secondo film?

Con Prima della rivoluzione, che si svolgeva interamente a Parma, questa specie di “effetto studente” si è un po’ perso. Avevo una mia autonomia più forte. Ma ho dovuto anche lì confrontarmi con la città che mio padre aveva mitizzato. È la storia di un giovane comunista, borghese però, che cerca una sua esperienza iniziatica d’amore incestuosa con la sorella di sua madre, ovvero la zia, più grande di lui. E però alla fine del film lascia tutto, torna dentro le regole della sua classe e si sposa con una bella ragazza di Parma, borghese, e tutto va come era scritto che andasse. Era un film in parte autobiografico ma anche scaramantico! Era quello che avrebbe potuto succedere a me se fossi rimasto a Parma. E in effetti anch’io avevo una storia con la protagonista del film che era Adriana Asti. Tendo sempre molto a vivere le storie che racconto. Quando filmo devo in qualche modo essere innamorato dei miei protagonisti.

C’è un legame sottile tra Ultimo tango a Parigi, L’Assedio e Io e te. Lo spazio chiuso torna a esserle congeniale. Come a dire che questi sono di nuovo tempi in cui starsene protetti in un rapporto duale, voltando le spalle a tutto il resto? O è possibile ancora uscire a cercare prospettive fuori, nella realtà? Di questo dentro-fuori mi interessa sapere da lei.

In sceneggiatura si scrive: Casa di Lorenzo – Interno. Giorno. Poi si scrive: Via Lima – Esterno. Alba. E poi ci sono le scene che sono Esterno/Interno o Interno/Esterno, che cominciano in un dentro e finiscono in un fuori. Sono le più emozionanti, quando da dentro un luogo chiuso e molto intimo, senza staccare, si esce fuori nella luce dell’alba.