La raccolta completa delle opere del poeta scomparso nel 2017 corredata da inediti permette di comprendere una ricerca profonda sulla parola, intesa come un luogo in cui abbandonarsi totalmente

Luce, erba, pioggia. Tre delle parole preferite di lui. Per nominare lei: la vita, il “limite e soglia” dentro cui si sbozzola la poesia di Pierluigi Cappello. Una vita col desiderio di librarsi nella luce (il poeta che voleva diventare pilota di aerei; il bambino che abitava in cima a un colle, più vicino alle nuvole, al cielo) e la volontà di correre lontano, sull’erba (lunghe gambe inquiete di velocista allenato). All’improvviso, la pioggia, fittissima. Quel temporale in forma di incidente, che trancia il cavo elettrico del midollo e spegne per sempre la lampadina del suo corpo. È lì che iniziano a “farsi avanti le parole”, dove le gambe non possono più arrivare. È lì che il ciclo luce-erba-pioggia si attiva fecondo, inarrestabile, per compiersi e culminare in questo libro, che contiene tutte le poesie, ma non tutta la poesia di Pierluigi Cappello: Un prato in pendio (Bur) uscito a un anno dalla scomparsa dell’autore e corredato di preziosi inediti.
“Dalla scomparsa dell’autore” è un modismo che Pierluigi forse non perdonerebbe; esplicitare, facilitare è spesso arrendersi alla lingua appiattita, barbarica, della comunicazione, ben lontana da quella “disperata e elegante consegnataci dalla tradizione letteraria”, su cui lui faticava e avrebbe faticato all’infinito. Il suo scrivere a matita – Un prato in pendio ce ne fornisce toccanti esempi, nel “Quaderno dei manoscritti” -, testimonia non solo la necessità fisica di ridurre sforzo e attrito nel trascinare la penna sul foglio, ma anche la volontà di…

L’articolo di Monica R. Bedana prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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