Il secondo lungometraggio del regista romano Dario Acocella racconta storie di minoranze in cerca di riscatto, sullo sfondo del grande calcio. In anteprima all'Angelo Mai di Roma il 19 dicembre

Avevamo già conosciuto lo sguardo delicatamente indiscreto di Dario Acocella in Ho fatto una barca di soldi, primo lungometraggio per il cinema del regista (e sceneggiatore di serie televisive, film documentari, videoclip e cortometraggi) presentato al Festival di Roma nel 2013 e girato intorno alla figura dell’artista di strada Fausto Delle Chiaie, eccentrico personaggio nascosto fra le trame della capitale d’Italia. Ritroviamo oggi quello sguardo di nuovo rivolto nella direzione di personaggi altrettanto dimenticati, ai margini, dispersi nella matrice caotica anche stavolta di una metropoli, Rio De Janeiro, per non dire di un intero paese. “O paìs do futebol” è stato girato in occasione dei campionati mondiali di calcio del 2014, per i quali il governo brasiliano spese cifre inimmaginabili per un paese bisognoso, allora come oggi, d’interventi ben più urgenti in ambiti primari dello sviluppo sociale come casa, scuola, sanità, lavoro.
A metà fra docufilm e opera di fiction, il secondo lungometraggio di Acocella si svolge, come ci dice lui stesso, sotto forma di “pedinamento zavattiniano” di protagonisti molto diversi fra loro e in movimento continuo. Le loro strade s’incrociano in modo casuale, all’interno di un autobus, che si muove per le vie affollate di una Rio De Janeiro immersa fino al collo in un oceano giallo-verde, una marea di maglie, cappelli, bandiere, corpi in preda all’effetto euforizzante delle endorfine del calcio; la sterminata hola di un paese grande mezzo continente, che sembra lasciarsi addomesticare all’annullamento delle reali necessità collettive. Ed è su questo mare agitato che navigano a vista le figure sulle quali indugia lo sguardo del regista. A partire dal più carismatico, Eron Morais Melo, l’odontotecnico capace di plasmare con eguale abilità un’impronta dentaria e una maschera di Batman da fare invidia ai più blasonati costumisti di Hollywood, la stessa che indossa ogni giorno prima di scendere in strada fino a diventare l’icona internazionalmente riconosciuta delle proteste popolari contro la follia degli sprechi dei campionati mondiali e non solo. Fu proprio l’immagine di questo Batman delle favelas, in cui si era imbattuto per puro caso su una rivista inglese, ad accendere in Acocella la curiosità per quel che stava accadendo in Brasile. “Ancora una battaglia” sentenzia Eron, in metropolitana, mentre si reca alla manifestazione in difesa dei professori universitari e del diritto all’istruzione.
“Mi sono sempre innamorato delle minoranze e schierato dalla parte dei perdenti”, dichiara il regista. Eppure, essere perdenti sul piano materiale non significa mancare di assolvere alla propria natura di esseri umani, alla tensione verso la propria realizzazione, al coraggio di rifiutare, dire “no” a una realtà che non è accettabile. Anche se dall’altra parte c’è una colossale macchina per lo sfruttamento economico di un gigante mantenuto in perenne via di sviluppo, come il Brasile. E i personaggi di questo film sono elementi delle minoranze, a vario titolo disseminate in un Brasile che freme per le prestazioni della “Seleção”, un Paese che si paralizza nell’ascolto della radio e della TV durante partite che sembrano giocarsi sul solo terreno su cui è data una possibilità di sentirsi vincitori. Per una volta. Come se il destino di ogni brasiliano dipendesse da quei 22 scarpini chiodati in corsa per novanta minuti. Il volto della ragazza in lacrime dopo la sconfitta, in una sequenza in primo piano che non conosce pietà, immortala la verità più potente del film: il dolore senza confini di un paese spremuto fino all’osso. Altro che calcio. Il pedinamento filmico diventa una macchina a raggi X. Come non balzare, da spettatori, nella realtà di oggi, quattro anni dopo, con la salita al potere dell’ultrareazionario Bolsonaro, a smascherare lo spettro della catastrofe allora incombente, a dare un volto (il peggiore) al deus ex machina di quel dolore, all’arrogante irresponsabilità che ne era causa. Difficile pensare, con il disincanto del 2018, che tutto questo possa valere solo per il Brasile, e che questo film parli soltanto di America del Sud.
E poi c’è Geremia, l’italiano venuto in Brasile a chiudere i conti con il passato. Dentro il suo bel completo di seta sembra quasi di intuire il regista, a zonzo fra i vicoli della favela, guidato da una curiosità impertinente, quasi etnografica, persino un po’ spocchiosa, e infine costretto a fare i conti con la disillusione e lo smarrimento che gli vengono dall’irriducibile e ingovernabile complessità in cui si è gettato. Saranno proprio i ragazzini che voleva aiutare, i ninhos da rua, Vitor e Darlan (altri personaggi chiave del film) che tanta pietà gli hanno mosso dentro, a rivelarsi in fondo i più autenticamente distanti dallo stereotipo del tifoso brasiliano, in una scena veloce, sintetica, che è un vero pugno nello stomaco dello spettatore illuso e caritatevole, e che forse racchiude il senso più profondo del film. Ma non vogliamo rischiare di anticipare troppo e ci fermiamo qui, invitandovi ad andare al cinema.
“O paìs do futebol” viene proiettato in anteprima il 19 dicembre all’Angelo Mai, locale da tempo divenuto vero punto di riferimento nella capitale per la buona cultura indipendente.

“O paìs do futebol” Long teaser from Zerozerocento Produzioni on Vimeo.