L’esperienza calabrese è il paradigma di una nuova umanità che serve all’Europa. E come Spinelli e i suoi compagni avevano reagito alla crisi della civiltà europea così oggi è necessario più che mai fronteggiare i nazionalismi, il razzismo e i sovranismi

«Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo. La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà».

Spinelli, Rossi, Colorni, Hirschmann, chiudevano così il Manifesto di Ventotene che diede il via ad un processo ancora largamente incompiuto di costruzione dell’Europa federale. Dalle conclusioni di quel Manifesto, che sembrava un libro dei sogni, bisognerebbe ripartire ancora oggi, valorizzando il meglio del percorso finora realizzato. Sappiamo bene come quei sogni, scontrandosi con la dura realtà postbellica, la globalizzazione neoliberista e l’apartheid da essa generato, ed oggi con il virulento ritorno dei nazionalismi e dei sovranismi, le mine disseminate dai competitors globali, Usa e Russia in testa, ne siano usciti ammaccati e distorti, per limiti soggettivi e per la torsione ad essa impressa dalle scelte sulla “competitività” seguite al Consiglio europeo di Lisbona 2000, che hanno colpito duramente i Paesi dell’Europa mediterranea e minato alla radice il modello di welfare europeo. Politiche che non arrivano a caso. Sono il prodotto dei processi di mondializzazione e globalizzazione economico finanziaria iniziati già alla fine degli anni 80 del secolo scorso e delle nuove relazioni tra impresa e Stato, tra potere economico finanziario e potere politico che sono una delle caratteristiche più significative dello sviluppo economico nelle società contemporanee.

E oggi siamo un’altra volta, come negli anni 40 del ’900, di fronte al sopraggiungere di «un nuovo diverso da tutto quello che si era immaginato». Da una parte ci si trova a misurarsi nell’Ue con le scelte dell’ultimo ventennio: le politiche della globalizzazione neoliberista e la sua torsione verso sistemi politico istituzionali noti come “democrature”. Un assetto istituzionale che ha già dato tutto quello che poteva, uno strabismo geopolitico che dimentica il Mediterraneo e non vede l’Africa. Dall’altra, ad affrontare il ritorno in forza di nazionalismi, sovranismi, razzismo, disumanità. L’Europa, spazio politico imprescindibile, si salva se cambia la rotta delle sue politiche economiche, sociali e di governo dei fenomeni migratori. Se muta il suo assetto istituzionale, ed il suo baricentro, spostandolo verso il Mediterraneo e orientandolo in direzione dell’Africa. E se le forze che hanno fronteggiato, o solo criticato, la globalizzazione neoliberista si riapproprieranno dei loro temi e metteranno al primo punto dei loro programmi, per le prossime elezioni, il conferimento al nuovo Parlamento di poteri e funzioni costituenti.

Servirebbe un’inversione simile a quella che mise in atto l’Internazionale comunista nel 1935 con il passaggio dalla politica del “social fascismo” a quella dei fronti popolari, che portò nel 1936 alle vittorie elettorali in Spagna e Francia. È ovvio che un’operazione del genere, considerato l’abisso che ci divide da quella fase storica, nel contesto dei nostri tempi, può servire alle forze che derivano da quella storia e democratiche in senso ampio, solo come richiamo pressante alla necessità di costruire un ampio schieramento capace di fronteggiare ed arrestare le pericolose derive in atto. Si dovrebbero oggi incontrare e trovare in un minimo comune denominatore, tutti «coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità», evitando la catastrofe, «per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo». Oggi come allora «la via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà». Anzi è, per alcuni versi più difficile e insicura di quel tempo per mancanza di visibilità di orizzonti sociali alternativi, largamente condivisi e di grandi forze politiche e sociali capaci di indicarli come mete. Ma milioni di persone in tutto il continente, legate ad un’altra idea di umanità e di società , chiedono un orizzonte visibile entro cui collocare tantissime buone pratiche, attività ed iniziative in essere. Sono in questa fase sconfitte, ma non vinte e, ad ogni valida occasione, ritornano in scena.

Quello che sta avvenendo con le mobilitazioni spontanee nel nostro Paese, a sostegno di Riace, del suo sindaco Mimmo Lucano e della loro esperienza di accoglienza, inclusione, rivitalizzazione di sistemi territoriali in abbandono, in nome dell’umanità, è emblematico. Un’esperienza collettiva che ha coinvolto reti istituzionali e sociali di tutta Italia e dell’Europa diventando il paradigma di un’idea di nuova umanità. E chiama in causa l’Ue, la sua storia, le sue politiche interne e geostrategiche, il suo governo, il Mediterraneo e l’Africa, i diritti umani e sociali, l’esclusione, il dolore e le sofferenze di tanta parte di umanità. Si salda con lo spirito di Ventotene e chiama in causa tutti coloro che hanno consapevolezza del pericolo. E che chiedono un orizzonte visibile entro cui collocare le tantissime buone pratiche, attività ed iniziative. E non sono pochi. È un sogno destinato a restare tale? Forse. Ma i sogni e le utopie sono forze potenti. Sono il rifiuto di subire il presente. Sono essenziali per progettare il futuro. Muovono il mondo. E se in Italia, per l’Europa, si partisse dai sogni, in parte realizzati, di Ventotene e Riace, si potrebbe aprire un nuovo scenario.

L’articolo di Mimmo Rizzuti è tratto da Left n. 1 del 4 gennaio 2019


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