Ossessionato dal nemico interno il neo presidente brasiliano attacca le minoranze. «Dobbiamo prepararci a una vera e propria resistenza» dice Yurij Castelfranchi dell’Universitade federal de minas Gerais

Sono circa 900mila gli indios che vivono in Brasile in 462 riserve in un’area pari al 12,2 per cento del territorio nazionale, per lo più in Amazzonia e da oltre trent’anni la gestione di queste terre era in mano al Funai (Fondazione nazionale dell’Indio). Con questo cambio di rotta, sale la preoccupazione per il lavoro di agricoltori, minatori e allevatori nonché per gli effetti sull’ambiente dovuti alla costruzione di dighe e centrali. Questo significa via libera alle multinazionali che potranno gestire a loro piacimento le terre ancestrali distruggendo foresta e biodiversità, nonostante nella Costituzione brasiliana sia esplicitata la tutela dei popoli indigeni. Riproponiamo qui l’intervista all’antropologo e divulgatore scientifico Yurij Castelfranchi dell’Universitade federal de minas Gerais in Brasile.

«Lo scenario che si apre dopo l’elezione di Bolsonaro è più che preoccupante. Si prospetta una feroce repressione. Colpirà i movimenti sociali, i lavoratori. Forte sarà l’attacco ai diritti sociali degli indios e all’ambiente. Ed è già in atto un attacco senza precedenti alle scuole, alle università, ai docenti. Stiamo provando ad articolare delle proposte per resistere» denunciava già Yurij Castelfranchi, all’indomani delle elezioni in Brasile. Autore di libri di divulgazione scientifica in Amazzonia. Viaggio dall’altra parte del mare (Laterza), con efficacia narrativa racconta lo choc culturale di un europeo che si innamora del Brasile (nonostante le feroci contraddizioni di oggi), ripercorrendo la storia dell’incontro fra i bianchi e gli amerindi ovvero la storia del più grande genocidio della storia. Nei primi cento anni della conquista furono uccise, con le armi e con le malattie 70 milioni di persone, ha scritto Todorov. «Senza contare che la cronaca è quella parziale stilata dai conquistadores», chiosa Castelfranchi che insegna all’Universitade federal de minas Gerais, dove svolge un’intensa attività di ricerca sulle epistemologie indigene, in collaborazione con i rappresentanti di quelle comunità. All’università «sono accolti come Nobel, come grandi statisti e capi di Stato e invitati a fare lezione», ci racconta al telefono, dall’altro capo dell’Oceano, lo studioso e ricercatore, impegnato sul fronte dell’opposizione. Gli intellettuali, gli scrittori, ma anche gli accademici in Brasile si sono schierati apertamente contro Bolsonaro, dice Castelfranchi non lasciandosi intimorire della minacce ormai esplicite. «Il clima che si vive è di forte intimidazione, di paura e di paranoia crescente. Vedo che molti colleghi ora lasciano sopravvivere sulle loro bacheche facebook soltanto spiagge, fiori e cagnolini – dice sorridendo -, hanno già tolto ogni riferimento alle battaglie politiche». «La faccenda è seria ma le sono accuse surreali. Un collega che studia il movimento sindacale ha una denuncia penale sulle spalle. è stato accusato di violare la Costituzione perché studia solo il filone di sinistra. Un altro professore, decano della ricerca, è stato accusato di istigare all’uso delle droghe perché studia gli effetti della marijuana». Ma per quanto ci siano già state perquisizioni e avvertimenti, «i rettori ribattono che i poliziotti possono entrare in facoltà ma solo per studiare».

La vittoria di Bolsonaro, che inneggia a Pinochet e alla tortura, è anche figlia dell’ignoranza?

La questione è complessa. Il punto è che il Brasile non ha mai davvero affrontato aspetti cruciali della propria storia, come la schiavitù, l’oligarchia e la dittatura. Il dramma è che la schiavitù ancora oggi struttura le relazioni sociali segnate da una forte contrapposizione fra ricchi e poveri, fra bianchi e neri. L’oligarchia, erede della schiavitù, ha mani pasta in politica e nelle mafie.

Ma i brasiliani negano tutto questo, non lo vedono. Per i brasiliani la schiavitù non è l’equivalente di quello che è il nazismo per gli europei. Pensano che sia colpa dei portoghesi, degli altri.

Pesa ancora molto essere stati sotto la dittatura militare dal 1964 al 1984?

Non abbiamo mai fatto veramente i conti con la dittatura. Il risultato è che oggi decine di milioni di brasiliani considerano la dittatura militare un’alternativa assolutamente legittima e possibile. E in situazione di crisi economica, perfino auspicabile. Il dipartimento di studi sulla democrazia della mia facoltà ha fatto una ricerca nazionale e i risultati sono stati impressionanti. Purtroppo la democrazia è sempre stata molto fragile in Brasile, molto poco apprezzata, poco assimilata. Ma c’è anche un altro grosso problema: il fondamentalismo cristiano. è cresciuto moltissimo negli ultimi dieci anni e spesso assume toni molto violenti.

Dunque passare dalle parole ai fatti sarà facilissimo per Bolsonaro.

Non è ancora detto. Bisogna capire se fa il gradasso annunciando progetti che lui stesso sa di non poter portare a termine. Dovrà trovare un equilibrio fra i suoi enunciati di tipo neofascista che gli hanno portato voti e la necessità di avere l’appoggio dell’alta borghesia liberale. Non può collocare militari in tutti i ministeri chiave suonando la gran cassa del nazionalismo autarchico e poi privatizzare per assumere il potere della Petrobras. Dovrà trovare una mediazione fra le affermazioni autoritarie da Stato fascista e la liberalizzazione economica che ha promesso ai suoi alleati. L’altro ostacolo siamo noi. Fino a che punto il tessuto democratico della società civile riuscirà a resistere? Fino a che punto noi intellettuali riusciremo a fare opposizione con i sindacati, con i partiti di sinistra che necessariamente devono riorganizzarsi, con chi vive nelle periferie, con gli indigeni? Dobbiamo funzionare da contrappeso in modo che non sia così facile per lui agire. Questo Parlamento è fra i più conservatori di tutta la storia recente del Brasile, ma non sufficiente per cambiare la Costituzione. A ben vedere ci sono piccoli segnali di diffidenza anche in alcuni settori conservatori e liberali. Ma se diventeranno opposizione alla sua manovra autoritaria lo sapremo solo fra sei mesi

Fernando Haddad, candidato del Partito dei lavoratori (Pt), ha ottenuto il 44,71 per cento, non tutto è perduto?

L’opposizione ha preso bei voti ma non sono sufficienti per resistere a questo tsunami autoritario, che si alimenta anche di fake news e di odio sociale. Un aspetto nuovo e molto importante è stato il protagonismo delle donne, in forme inedite, si stanno facendo avanti anche nella politica nazionale. Il problema è che il Parlamento è modulabile rispetto a interessi specifici, se chi è al potere ha il 70 per cento dei parlamentari li può comprare per arrivare all’80.

I giornali di opposizione hanno voce e circolazione?

C’è un buon giornalismo di opposizione e un eccellente giornalismo indipendente, giovane, di data journalism e di inchiesta, ma è molto di nicchia. Il giornalismo di opposizione orbita intorno al Pt ma ha un impatto limitato, non fa parte del mondo dei media mainstream dominati dalle Chiese evangeliche e dagli interessi dell’alta borghesia conservatrice, come ad esempio Tele Globo. Il 95 per cento dei brasiliani ha ancora come unica fonte di informazione la tv o al più le radio dominate dalle Chiese. Ora si tratta anche di vedere fino a che punto il giornalismo classico, conservatore, quello più legato al ceto imprenditoriale e alle grandi corporazioni, si schiererà. Il Folha de São Paulo sembra già prendere le distanze da Bolsonaro.

Il mondo degli intellettuali, fin qui schieratissimo, rischia di essere imbavagliato?

L’atmosfera di minaccia è molto seria, le persone si spaventano. In generale l’intellighenzia brasiliana si è schierata contro. Perfino alcuni attori delle telenovela di Tele Globo, fra i personaggi più amati del Brasile, hanno preso posizione apertamente e questo ha un suo peso. Dopodiché c’è una minaccia concreta alla libertà di pensiero e di espressione, diretta proprio alle università e alle scuole, ci sono già casi espliciti di violenza, con controlli di polizia federale, fioccano denunce. Siamo tutti accusati di essere comunisti. Mentre ti porta all’università il tassista già ti aggredisce chiedendoti perché vai all’università dei comunisti, cosa ci vai a fare. Il clima è pessimo. Serve attenzione internazionale per garantire libertà di pensiero e di espressione.

A Left la madre di Marielle Franco, da avvocato, ha detto di voler continuare la lotta di sua figlia, ma ora avere giustizia sarà più difficile.

Il suo lavoro e la sua testimonianza sono importantissime. Che Marielle sia stata vittima di un caso di terrorismo di Stato ormai è chiaro. Probabilmente è stato comandato a livello locale, a Rio, con il coinvolgimento di militari, polizia, politici della zona. Se c’è una forte attenzione internazionale dei media c’è speranza che vada avanti l’inchiesta federale. Certo, con i militari in tutti i ruoli chiave sarà difficile. Se usi la retorica militare come linguaggio di Stato è davvero difficile bloccare queste cose. Tuttavia Marielle è stata il seme. In Brasile oggi abbiamo un proliferare di donne coraggiose, straordinarie, che vengono dalle periferie, che sono state nostre studentesse all’università, che tornano nelle periferie come leader comunitarie e poi diventano assessori comunali deputate, ecc. C’è un’onda crescente di ragazze e di donne che hanno grinta e intelligenza politica. In Brasile le poche cose positive che ho visto negli ultimi cinque anni sono tutte frutto delle grandi battaglie delle donne, che hanno dato vita a nuove articolazioni politiche e in difesa delle minoranze discriminate.

Salvini si è subito congratulato con Bolsonaro. Come vede questa onda nera e clerico-fascista?

Qui in Brasile c’è un forte dibattito – come immagino in Italia -, ci si domanda se si possa parlare di fascismo o meno. Secondo alcuni usare il termine fascismo sarebbe una banalizzazione, un anacronismo, una distorsione storica. Nel caso di Salvini lo dovete dire voi, ma riguardo alla nuova destra brasiliana io non ho dubbi: tecnicamente sono fascisti, non si tratta solo di una destra autoritaria, reazionaria o statalista. Hanno il mito del grande Brasile: dicono che potrebbe essere il Paese più potente del mondo se non ci fossero i comunisti, un nemico endemico che è maligno di natura, tossico, contagioso. Questa è la retorica di Bolsonaro. Ed è fascista la soluzione che viene proposta: vanno sterminati. Dobbiamo spazzare via i rossi dal Brasile dice il neo presidente. Un aspetto tipico del fascismo era l’olio di ricino ai professori, oggi è presentissimo l’anti intellettualismo estremo, l’odio verso chi studia, le università descritte come covi di sovversivi. Bisogna pensare a una vera resistenza.

Vede possibili alleanze fra Trump e Bolsonaro, Salvini, Bannon, nella costruzione di una internazionale nera?

Ci sono stati contatti immediati fra loro. Hanno similitudini e differenze. Una differenza riguarda alcune dinamiche del neoliberismo. Trump, per esempio, vuole chiudere le frontiere al commerci, imporre dazi, proteggere l’industria americana, in questa fase invece per Bolsonaro sarà probabilmente indispensabile allearsi con i settori neo liberali del capitalismo internazionale, consegnando le ricchezze brasiliane all’estero, per privatizzare tutto. Ma dal punto di vista della pratica repressiva sono molti simili.

Bolsonaro minaccia gli indios. Nonostante secoli di persecuzioni e tentativi di annientamento la cultura indigena è ancora viva?

La repressione genocida avrà un nuovo colpo di frusta. E ha a che fare con quel che accennavo all’inizio. Il Brasile è fondato sulla schiavitù, sull’idea che tu devi e puoi sterminare. La mobilità sociale, l’ascensore sociale dei poveri, il protagonismo politico degli indios non sono assolutamente previsti dall’oligarchia bianca brasiliana. Ancora oggi, una tranquilla signora bianca della middle class può dire cose che si possono leggere solo nei libri di storia della schiavitù. Le domestiche devono mettersi l’uniforme da schiava in casa. La dittatura ha contribuito allo sterminio degli indios, ha colonizzato l’Amazzonia, mandandoci i poveri delle periferie e dell’agricoltura del nordest per cancellarli dalle carte geografiche. Sono ancora in atto le repressioni degli indios e dei senza terra e più recentemente anche del movimento nero, delle femministe e lgbt. L’oppressione si è inasprita nel momento in cui questi gruppi cominciavano ad avere i propri leader, la propria visibilità, però io nutro molta speranza.

In che modo, visto il quadro?

L’altro giorno un leader indigeno mi diceva: «Noi abbiamo retto 500 anni contro bombardamenti, veleni, infezioni che ci venivano per le vostre coperte intossicate, avvelenamento dei pozzi d’acqua, mitragliatrici, cannoni, mi viene il dubbio se voi bianchi sopravviverete a questa fase». Noi bianchi siamo specialisti nel tagliare il ramo su cui ci sediamo, produrre catastrofi che apparentemente uccidono solo gli altri e che invece ci tornano indietro come un boomerang.

Abbiamo molto da imparare da queste culture…

C’è una fortissima coscienza oggi dell’importanza delle altre epistemologie come quelle indigene. In facoltà dialoghiamo con i loro rappresentanti, li proteggiamo politicamente, stiamo costruendo insieme corsi interdisciplinari e ci stiamo sempre più rendendo conto che i concetti più importanti della nostra cultura e di quelle amerindie non sono traducibili: non hai la parola Stato, società, religione, legge, non hai la parola capo. Questo non significa che debbano essere per noi un modello. Come l’ antropologo Eduardo Viveiros de Castro penso che non possiamo usare le società amerindie come utopia, come idealizzazione di quello che avremmo potuto, dovuto, essere. Ma possono essere per noi un esempio di un menù del possibile, di quante possibili biforcazioni, composizioni possiamo avere per pensare altre maniere di fare Stato, società ecc. Le loro realtà sono così molteplici, così diverse, che ti fanno capire che non c’è un’unica soluzione. È un patrimonio straordinario che rischiamo di perdere, mentre potrebbe offrirci guide preziose anche per girare il volano del nostro futuro in un momento in cui la terra dà segnali di collasso. Se non riusciamo a difendere gli indios è perché abbiamo già perso la battaglia su tutti gli altri fronti.

L’articolo è stato pubblicato nello “Speciale Brasile” su Left del 9 novembre 2018


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