Left va in Africa. La scelta, che da sempre cerchiamo di perseguire è quella di affacciarci al mondo oltre i confini della nostra penisola con la voglia di sapere e di far sapere.
E già parlare di Africa è insufficiente. Come raccontare, semplificare, ridurre ad una, i mille volti di un continente abitato da una popolazione giovane, di oltre un miliardo e 300 milioni, quasi tre volte l’Europa (stando ai dati del 2017), destinata in breve a raddoppiare. Che almeno si parli di “Afriche”, laddove neanche la suddivisione in 56 Paesi è sufficiente a definire una diversità immensa che da occidentali non vogliamo riconoscere.
E nell’era in cui ogni informazione ci viene offerta ad una velocità mai così incredibile, ci si accorge di conoscere poco o nulla di quei mondi che partono da poche miglia delle coste spagnole e arrivano fino al limite dell’emisfero australe. Ne sappiamo qualcosa quando conflitti dimenticati riappaiono nella loro crudeltà nei volti degli uomini e delle donne che, in assenza di prospettive nel proprio Paese, rischiano la vita nel viaggio più pericoloso, attraversando deserti e mari, per poi trovare porti chiusi e istituzioni sorde ad ogni minimo senso di banale civiltà.
Riemergono nei volti di uomini e donne, ma anche di tanti minori, che hanno deciso che, per ora, questa è anche casa loro e che cercano di vivere dignitosamente nei quartieri delle città e nei paesi, crescono nelle scuole, aspirano a quel minimo di benessere che non può e non deve essere privilegio riservato a pochi.
In questo numero di Left leggerete di ribellioni, di guerre, di oppressioni, sentirete anche la voce di chi ha provato ad andare più a fondo, a scrollarsi da dosso quel colonialismo micidiale che la storia d’Europa trascina con sé per provare a guardare anche con occhi altrui.
Ma oltre le vicende durissime, c’è un mondo immenso, ricco, di risorse, di culture, di storie e di prospettive sociali e abbiamo provato a raccontarlo.
Provare a guardare significa smontare radicalmente la frase ritrita “aiutiamoli a casa loro” evitando anche di cadere nella logica della carità raccontata come accoglienza, del diritto ad entrare, solo per alcuni, basato sulla subalternità alle logiche del mercato.
“Accogliamo quelli che ci servono” magari per poterli sfruttare e poi rimandarli a casa, come un prodotto usurato.
Un’Europa che si fondi su questi “valori”, sull’indifferenza rispetto a 49 persone bloccate nel Mediterraneo puramente per una campagna elettorale, sulla propaganda di una inesistente invasione, sul silenzio rispetto ai campi di detenzione in Libia, alle miniere dell’Africa Centrale, da cui dipenderà il futuro energetico del continente, al controllo delle immense risorse petrolifere per cui, dietro agli eserciti, si combattono le multinazionali del petrolio, non è un’Europa che avrà futuro. E, viceversa, così facendo, si permette che un continente continui ad essere depredato. Con nuovi attori che entrano in scena, si pensi ai miliardi di dollari cinesi, 60 soltanto nel 2018, investiti in “aiuti” che si traducono in infrastrutture di cui la proprietà resterà sempre coloniale, in monoculture che in pochi decenni potrebbero rompere quel poco che resta dell’equilibrio ambientale. Fra un secolo, se non si ferma lo scempio, gran parte del continente sarà invivibile. Un ruolo negativo potranno continuare a svolgerlo i fanatismi religiosi di diverso orientamento, capaci di dividere, distrarre, disilludere, da un processo di reale riscatto e liberazione.
Nonostante ciò, questa voglia di liberarsi da ogni giogo si avverte. La raccontano i ragazzi che si incontrano nelle nostre periferie.
Ognuna e ognuno hanno un dittatore da abbattere, un sogno per una famiglia lasciata lontana. Le diaspore esprimono questo sentimento ma anche le voci che riescono a filtrare dal cono d’ombra in cui il neoliberismo le vorrebbe rinchiuse ci raccontano di una società civile che non si rassegna, che non si limita a voler sopravvivere ma che in maniera carsica, comincia a maturare una consapevolezza.
Il mondo del ventunesimo secolo non avrà un futuro se le Afriche, restituite ai loro uomini e alle loro donne, non saranno libere.
Left va in Africa. La scelta, che da sempre cerchiamo di perseguire è quella di affacciarci al mondo oltre i confini della nostra penisola con la voglia di sapere e di far sapere.
E già parlare di Africa è insufficiente. Come raccontare, semplificare, ridurre ad una, i mille volti di un continente abitato da una popolazione giovane, di oltre un miliardo e 300 milioni, quasi tre volte l’Europa (stando ai dati del 2017), destinata in breve a raddoppiare. Che almeno si parli di “Afriche”, laddove neanche la suddivisione in 56 Paesi è sufficiente a definire una diversità immensa che da occidentali non vogliamo riconoscere.
E nell’era in cui ogni informazione ci viene offerta ad una velocità mai così incredibile, ci si accorge di conoscere poco o nulla di quei mondi che partono da poche miglia delle coste spagnole e arrivano fino al limite dell’emisfero australe. Ne sappiamo qualcosa quando conflitti dimenticati riappaiono nella loro crudeltà nei volti degli uomini e delle donne che, in assenza di prospettive nel proprio Paese, rischiano la vita nel viaggio più pericoloso, attraversando deserti e mari, per poi trovare porti chiusi e istituzioni sorde ad ogni minimo senso di banale civiltà.
Riemergono nei volti di uomini e donne, ma anche di tanti minori, che hanno deciso che, per ora, questa è anche casa loro e che cercano di vivere dignitosamente nei quartieri delle città e nei paesi, crescono nelle scuole, aspirano a quel minimo di benessere che non può e non deve essere privilegio riservato a pochi.
In questo numero di Left leggerete di ribellioni, di guerre, di oppressioni, sentirete anche la voce di chi ha provato ad andare più a fondo, a scrollarsi da dosso quel colonialismo micidiale che la storia d’Europa trascina con sé per provare a guardare anche con occhi altrui.
Ma oltre le vicende durissime, c’è un mondo immenso, ricco, di risorse, di culture, di storie e di prospettive sociali e abbiamo provato a raccontarlo.
Provare a guardare significa smontare radicalmente la frase ritrita “aiutiamoli a casa loro” evitando anche di cadere nella logica della carità raccontata come accoglienza, del diritto ad entrare, solo per alcuni, basato sulla subalternità alle logiche del mercato.
“Accogliamo quelli che ci servono” magari per poterli sfruttare e poi rimandarli a casa, come un prodotto usurato.
Un’Europa che si fondi su questi “valori”, sull’indifferenza rispetto a 49 persone bloccate nel Mediterraneo puramente per una campagna elettorale, sulla propaganda di una inesistente invasione, sul silenzio rispetto ai campi di detenzione in Libia, alle miniere dell’Africa Centrale, da cui dipenderà il futuro energetico del continente, al controllo delle immense risorse petrolifere per cui, dietro agli eserciti, si combattono le multinazionali del petrolio, non è un’Europa che avrà futuro. E, viceversa, così facendo, si permette che un continente continui ad essere depredato. Con nuovi attori che entrano in scena, si pensi ai miliardi di dollari cinesi, 60 soltanto nel 2018, investiti in “aiuti” che si traducono in infrastrutture di cui la proprietà resterà sempre coloniale, in monoculture che in pochi decenni potrebbero rompere quel poco che resta dell’equilibrio ambientale. Fra un secolo, se non si ferma lo scempio, gran parte del continente sarà invivibile. Un ruolo negativo potranno continuare a svolgerlo i fanatismi religiosi di diverso orientamento, capaci di dividere, distrarre, disilludere, da un processo di reale riscatto e liberazione.
Nonostante ciò, questa voglia di liberarsi da ogni giogo si avverte. La raccontano i ragazzi che si incontrano nelle nostre periferie.
Ognuna e ognuno hanno un dittatore da abbattere, un sogno per una famiglia lasciata lontana. Le diaspore esprimono questo sentimento ma anche le voci che riescono a filtrare dal cono d’ombra in cui il neoliberismo le vorrebbe rinchiuse ci raccontano di una società civile che non si rassegna, che non si limita a voler sopravvivere ma che in maniera carsica, comincia a maturare una consapevolezza.
Il mondo del ventunesimo secolo non avrà un futuro se le Afriche, restituite ai loro uomini e alle loro donne, non saranno libere.