Insolita figura quella del pittore Osvaldo Licini, a cui il Guggenheim di Venezia dedica una bella e ampia monografica ripercorrendo tutte le tappe della sua ricerca nell’astrattismo fino al recupero dell’immagine femminile in forme fiabesche e immaginifiche. Come nella colorata serie dedicata all’«Amalassunta», immagine di fantasia, ispirata alla luna leopardiana, malinconica, elusiva ma, talora, anche impertinente, imprevedibile e giocosa, pronta a fare linguacce per poi perdersi nei propri pensieri, narcisista e fiera della propria bellezza. «È la luna nostra bella», scriveva il pittore al critico Giuseppe Marchiori, che è stato uno dei suoi più fini interpreti e interlocutori.
La pittura del marchigiano Licini assomiglia al suo autore, vitale, indomita, essenziale, ruvida, schiva, misteriosa. Anche quando rinuncia alla figurazione rivela radici profonde nelle linee e nei colori dei paesaggi di Monte Vidon Corrado, dove il pittore era nato nel 1894. Dopo essere stato ferito a una gamba in guerra e aver trascorso una convalescenza ricca di incontri a Parigi decise di tornare là per vivere e lavorare in un fertile esilio volontario. Scelse la provincia, i luoghi d’infanzia, dopo aver frequentato i protagonisti delle avanguardie storiche e i centri più attivi della cultura europea.
Ma anche dal suo silenzioso buen ritiro non smise mai di interessarsi a ciò che di più nuovo si muoveva sul piano internazionale dell’arte. Lui che all’Accademia a Bologna aveva avuto come compagno di banco Morandi, lui che a Parigi aveva frequentato Picasso ed era rimasto folgorato dalla pittura di Modigliani diventandone intimo amico, ad un certo punto decise di…