Invisa ai bolscevichi e censurata per anni, Rosa Luxemburg rinnovò con originalità il marxismo, rifiutando le derive totalitarie. «Con l’abolizione della democrazia - diceva - si elimina ogni fonte viva di ricchezze e progresso spirituale». A 100 anni dalla morte il suo pensiero fa ancora paura al potere

Cento anni fa, il 15 gennaio 1919, al rifluire dell’insurrezione spartachista, Rosa Luxemburg veniva assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dai Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del socialdemocratico di Friedrich Ebert e Gustav Noske, e gettata in un canale di Berlino.
Rosa Luxemburg è stata una delle figure più nobili nella storia del movimento operaio internazionale per la coerenza, il rigore, l’intelligenza con cui difese le proprie idee. Marxista libertaria, femminista, internazionalista e consiliarista, Rosa Luxemburg seguì sempre con grande partecipazione le vicende del movimento operaio russo. Paradossalmente però fu proprio in Urss che la sua opera fu censurata, mutilata, distorta. Più in generale nei Paesi del “socialismo realizzato” si cercò di trasformare il suo lascito in un’icona inoffensiva e svilita della sua carica eretica, da mostrare una volta all’anno nelle manifestazioni del Primo maggio. Malgrado ciò le sue riflessioni sulla Rivoluzione russa, rappresentano ancora oggi una miniera poco esplorata e conosciuta. Il suo monito profetico ai bolscevichi a non disgiungere il socialismo dalla democrazia è destinato a restare inscritto per sempre sulle bandiere degli oppressi: «La libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente».
Rosa, nacque nel 1871 a Zamość una cittadina non lontano da Lublino, quando la Polonia era ancora parte dell’impero zarista, in una famiglia ebrea. Parlando russo fluentemente poté seguire sin dagli esordi il dibattito nel movimento rivoluzionario russo pur militando dopo aver lasciato Varsavia nella socialdemocrazia tedesca. Quando nel celebre confronto interno alla socialdemocrazia russa del 1902-1904 sulla struttura del partito emersero le proposte ultracentralistiche e giacobine di Lenin, Rosa dimostrò quanto esse potessero essere pericolose per il corso successivo della rivoluzione. Per la socialista polacca imporre ai membri del partito un’«obbedienza cadaverica» al potere assoluto del comitato centrale come intendevano fare i bolscevichi rappresentava «il metodo più facile e sicuro per consegnare un movimento operaio ancora giovane alla brama di potere degli intellettuali». Luxemburg concordava con Lenin che la disciplina operaia si forgia “naturalmente” all’interno della fabbrica. Tuttavia aggiungeva che la disciplina capitalista derivava anche da altri due elementi altrettanto decisivi: l’esercito e la burocrazia statale. «L’autodisciplina della socialdemocrazia non è semplicemente la sostituzione dell’autorità dei governanti borghesi con l’autorità di un comitato centrale socialista» sosteneva Rosa rivendicando allo stesso tempo ai lavoratori il diritto a sbagliare: «Gli errori commessi da un movimento veramente rivoluzionario sono infinitamente più fruttuosi dell’infallibilità del più intelligente Comitato centrale».
Allo stesso tempo “la piccola zoppa ebrea”, come la chiamavano con disprezzo i giornali reazionari tedeschi, non pencolò mai verso quelle correnti della socialdemocrazia russa a cui aderì in vecchiaia anche Grigorij Plechanov, il fondatore del marxismo in Russia, che invocavano per la Russia solo una “rivoluzione democratico-borghese” senza mettere in discussione la struttura sociale del Paese. Nel suo scritto Blanquismo e socialdemocrazia del 1906, Luxemburg affermava che…

L’articolo prosegue nel numero di Left del 4 gennaio 2019


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