Binario 21, sotto la stazione centrale di Milano. Da qui venti treni tra il '43 e il '45 partirono verso Auschwitz, portavano ebrei ed oppositori politici. Tutto è rimasto come allora. Ne parla la responsabile degli eventi Talia Bidussa

Non ci si pensa mai quando si sale su un treno alla stazione centrale di Milano che per molti quei binari grigi e freddi siano state le ultime cose viste da persone libere, ancora in possesso di un’identità e in alcuni casi vive. Non ci si pensa affatto mentre si corre verso un convoglio che sta partendo senza aspettarci, sul quale poi saliremo per lamentarci delle condizioni igieniche o dei ritardi, di come alla fine il nostro, per lavoro o per diletto, sia comunque un buon viaggio. Dovremmo invece rifletterci, soprattutto quando ci troviamo a camminare sulle banchine degli ultimi binari, quelli che portano sotto di loro il vuoto di un tempo diverso. Un tempo in cui i biglietti erano di sola andata.
Già perché dal livello sottostante durante la seconda guerra mondiale partirono diversi treni stipati di persone verso il campo di concentramento di Auschwitz e proprio lì alcuni anni fa è sorto il Memoriale della Shoah, accessibile dal lato esterno dell’edificio.
Entrandoci, il senso di vuoto e inadeguatezza è immediato e arriva dritto allo stomaco. E al cuore. Una sensazione voluta, come conferma Talia Bidussa, responsabile eventi del Memoriale. «Tutto qui è pensato per spingere il visitatore a sentirsi scomodo e a disagio con se stesso. La struttura è quella originale, non sono state neanche ridipinte le pareti e chi la visita può entrare nei vagoni, sentendo sulla propria testa il rumore dei treni che partono, esattamente come succedeva tra il 1943 e il 1945 in modo da connettersi ancora di più con ciò che è stato».
E ciò che è stato è una narrazione fredda come lo è quel sotterraneo, all’epoca adibito al carico-scarico merci prima di trasformarsi nel punto di partenza delle deportazioni. Un particolare non trascurabile visto che proprio il fatto che si trattasse di un luogo abitualmente frequentato contribuì a non destare alcun sospetto nei milanesi. «Nemmeno gli abitanti del quartiere, essendo soliti vedere piccoli furgoni entrare e uscire, fecero caso ai movimenti delle SS, senza contare che l’arrivo dei deportati avveniva quasi sempre durante il coprifuoco».
L’approdo in stazione non era che l’atto conclusivo di un agghiacciante iter che aveva inizio ben prima, con l’incarcerazione delle persone che si era deciso di eliminare a San Vittore, a quel tempo unico carcere milanese. Da lì, raggiunto un numero sufficiente per giustificare un viaggio le si spostava in stazione, su vagoni che altro non erano se non veri e propri carri bestiame muniti solo di un po’ di paglia a terra e un secchio per urine e feci. Potevano ospitare otto cavalli, contennero fino a ottanta persone per volta. Una volta riempiti non restava che porli su un montacarichi diretto al piano superiore in corrispondenza dei binari 18 e 19, attaccarli alla locomotiva e farli partire.
Non al 21, dunque, come erroneamente si pensa. «Un’inesattezza che risale a quando iniziando la riscoperta di questo luogo si credette che il binario fosse esattamente quello corrispondente al sottostante. Quando si scoprì che non era così, il nome Binario 21 era già entrato nella mente di tutti e anche se a contare è la storia e non questo dettaglio è giusto specificare l’inesattezza per evitare di prestare il fianco ai negazionisti che cercano ogni minima falla nelle informazioni per contestare l’incontestabile».
A quel punto l’ultimo viaggio poteva avere inizio, almeno sette giorni ininterrotti, affrontati senza cibo né acqua o con solo pochissime razioni a disposizione. «La durata stessa del tragitto, molto superiore al tempo realmente necessario per raggiungere il campo di concentramento, chiarisce come esso stesso fosse già pensato come mezzo di sterminio visto che molte persone non arrivarono nemmeno a destinazione», continua Talia.
Furono venti i treni a partire dalla stazione centrale, cinque carichi di oppositori politici, tre di oppositori ed ebrei e dodici di soli ebrei. Tra di loro anche la senatrice a vita Liliana Segre, tra le pochissime persone ad avere la fortuna di tornare nella sua Milano, che oggi abbraccia un luogo che vuole accendere un faro sul passato ma anche suscitare una riflessione sul presente.
All’ingresso una scritta fortemente voluta dalla stessa Segre inchioda tutti alle proprie responsabilità: indifferenza. Quella di allora e quella di oggi, che non si deve temere di mettere sullo stesso piano perché l’indifferenza verso l’altro è unica e percorre fatalmente binari di sola andata. Ed è appunto attraverso l’analisi di un fenomeno mai sopito e oggi tornato dirompente più che mai sia nel quotidiano di ognuno che nel dibattito politico, che dovrebbe scatenarsi una profonda riflessione sull’io, su cosa facciamo a volte consapevolmente altre meno, per rendere un altro essere umano vittima della nostra indifferenza. E al contrario cosa invece facciamo per impedire il ripetersi di certe mostruosità o il fiorire di nuove, non meno pericolose forme di esse.