Il premio Oscar come miglior film alla pellicola di Peter Farrelly con Viggo Mortensen e Mahershala Ali. Un film che parla di dignità umana, di consapevolezza del proprio agire, della forza dell’arte e del talento. Un viaggio nell'America razzista degli anni Sessanta che parla anche dell'oggi

Già pluripremiato, Green Book di Peter Farrelly, (adesso premio Oscar come miglior film ndr) è il film più politically correct dell’anno per la vicenda che racconta – una storia di amicizia – ed i temi che affronta – discriminazione razziale e alterità. Il buttafuori italoamericano Tony Vallelonga (Viggo Mortensen) resta senza lavoro e viene ingaggiato, dopo un breve e teso colloquio, dal talentuoso pianista afroamericano Don Shirley (Mahershala Ali). Il lavoro consiste nell’accompagnare l’artista in tour per due mesi nel profondo Sud, lì dove il razzismo è più radicato e intransigente, e un nero non può entrare in un bar senza rischiare di essere pestato, non deve mangiare in sala con i bianchi, perché così stabiliscono da tempo le regole di convivenza, e, se fermato dalla polizia, subisce derisione e minacce. Partiti da una situazione iniziale di totale idiosincrasia e apparentemente incolmabile distanza, i due personaggi troveranno occasione di conoscersi e apprezzarsi reciprocamente, pur dentro il conflitto, la diversità dei temperamenti, la differenza dei punti di vista e della formazione, complici la strada, l’intimità di un interno auto e le esperienze che fanno. Il rozzo driver solido e dai modi sbrigativi, pugno facile e slang divertente, legato alla famiglia, innamorato della moglie, non privo di pregiudizi, che parla con il boccone in bocca, ascolta Aretha Franklin alla radio, predilige il fried chicken unto e si volta frequentemente verso il suo interlocutore, distraendo lo sguardo dalla strada, assumerà un ruolo ben diverso dal semplice salariato: sarà uno che tira fuori dalle rogne, se serve; che protegge, se necessario; che ascolta, perché è importante prestare attenzione alle parole altrui, persino scriverle, e saper ascoltare quella musica, magistralmente eseguita nelle eleganti performance serali, che riesce a toccare il cuore degli altri, compreso il suo. Il titolo si riferisce ad una guida-viaggio, The Negro Motorist Green Book, che segnalava alle persone di colore alcuni luoghi, spesso di infimo livello, a cui potevano accedere, per pernottare e mangiare. Insomma un piccolo manuale di sopravvivenza, cortesia apparente e razzismo istituzionalizzato, che cesserà di essere pubblicato solo nel 1966 due anni dopo il Civil Right Act. Tralasciamo le voci intorno al film, compreso il tweet pro teoria della cospirazione di Trump, scritto dallo sceneggiatore Nick Vallelonga; tralasciamo la consuetudine del mercato Usa di lavare ‘i panni sporchi’ della storia nazionale con film edificanti su temi come razzismo; si tratta di un film di struttura classica, un on the road, coniugato con un buddy movie, incentrato su una tematica di forte impatto sociale, edificante e robusto come i personaggi che mette in scena, piacevole e ben girato, che parla di dignità umana, di consapevolezza del proprio agire, della forza dell’arte e del talento, a cui gli attori riescono a dare autenticità e vigore. Raccomandabile la versione originale.

Articolo pubblicato su Left n. 7 del 15 febbraio 2019