Mimmo Lucano, sindaco esiliato, ci auguriamo ancora per poco, di Riace, ce ne aveva parlato raccontando di un senso di profonda sconfitta. Questo gli suscitava San Ferdinando, la baraccopoli sterminata dove il 6 marzo all’alba sono giunti i bulldozer del Viminale. Lo aveva detto del resto il ministro, dopo l’ennesima morte annunciata di un ragazzo arso vivo perché cercava di riscaldarsi. «Libereremo la piana per lasciare Rosarno ai rosarnesi». Molti ci avevano creduto ma non è andata così. Nella baraccopoli vivevano oltre 1.200 persone censite. Lavoratori dell’agricoltura costretti in un luogo la cui stessa esistenza era da anni inaccettabile. Ma non è dal 6 marzo che San Ferdinando e Rosarno vedono questo scempio.
Tanti anni fa c’era una cartiera abbandonata, piena di amianto, che ospitava un migliaio di persone, venne abbattuta e si realizzarono tendopoli e alloggi di fortuna. Dopo la rivolta del 2010 il governo dichiarò di voler intervenire. Nel gennaio del 2012 l’allora ministro dell’Integrazione Andrea Riccardi inaugurò la tendopoli a San Ferdinando, dopo aver smantellato una baraccopoli e un’area di container vicino Rosarno. E di tendopoli in tendopoli si è giunti ad avere una baraccopoli dove vivevano fino a poco fa, circa 2.000 persone, affiancata da una tendopoli in grado di ospitarne poco meno di 500. Quella era l’accoglienza promessa allora e rimasta fino a ieri. Insufficiente e priva di garanzie. In 18 mesi tre persone ci hanno perso la vita nel tentativo di riscaldarsi dall’inverno e un altro ragazzo, il sindacalista Soumayla Sacko, è stato ucciso perché stava rubando una lamiera necessaria per una baracca.
Poi ieri mattina la parata, «erano almeno 600 agenti in abbigliamento antisommossa che hanno circondato il campo – racconta il collega Agostino Pantano – temevano tensioni e manifestazioni di ostilità ma le persone invece lentamente avevano già iniziato ad andarsene per conto proprio. Quel posto lo volevano, lo volevamo chiuso tutti. Ma si auspicava una soluzione che invece non c’è stata». Pantano a tarda sera faceva un bilancio numerico che dovrebbe far ragionare. Una parte consistente delle persone presenti, almeno 400 sono state spostate nella tendopoli che è a 20 metri dal terreno sgomberato. Alcuni, quelli con lo status di rifugiato, di protezione internazionale o comunque garantiti, hanno avuto in parte la possibilità di andare in altri Cas o Sprar ma hanno rifiutato perché troppo lontani dai luoghi di lavoro. Chi era in condizione di irregolarità si è reso irreperibile, prendendo il treno e spostandosi verso altre città o riversandosi nelle campagne vicine. Circa in 200, ieri notte erano ancora nelle baracche rimaste in piedi.
«Ci vorranno un paio di giorni almeno per demolire tutto – riprende Agostino Pantano – e per molti la sola soluzione trovata sono le tende che si sono aggiunte nella tendopoli. Presto diventerà come un vero e proprio campo profughi perché si stanno montando le nuove strutture nei vialetti che esistevano fra una tenda e l’altra. Nessuna soluzione reale insomma, solo tanto clamore mediatico». E poi il rumore delle ruspe tanto caro al ministro dell’Interno. Hanno sradicato canne e lamiere, tavole di legno e pannelli di ferro, cartone e mattoni. Tutto è divenuto un groviglio polveroso che si è trasformato in monito per chi si sente privato di speranza. «Non volevamo restare qui – racconta Abdhul – 20 anni, del Burkina Faso. Ma, – dice raccontando di una coppia, madre e figlio, che si tengono per mano sopra un grande fagotto – loro che fine faranno? Lo troveranno un tetto? Io sono abituato a dormire anche all’aperto ma loro?».
Forse per le persone più vulnerabili avranno una sistemazione ma cosa accadrà nei prossimi mesi? La stagione delle arance è terminata e non è stata delle migliori. Ora fa già caldo e il sole arroventa la terra soprattutto nelle zone della piana più vicine al mare. Si alza la polvere e si è in una di quelle fasi in cui il lavoro è poco ma non ci si può allontanare troppo, si rischia di essere soppiantati da altre braccia e questa diventa la fase più delicata. Chi può cerca di trovarsi altri scampoli di occupazione ma è difficile in una terra da cui si scappa perché creare lavoro non è mai rientrato nei doveri dei governanti che si sono succediti.
Oltre alle realtà locali come Campagne in Lotta, Sos Rosarno, Rifondazione Comunista sono intervenuti gli operatori di Medu (Medici per i Diritti Umani) che da anni monitorano la zona e intervengono con unità di strada e l’associazione A Buon diritto. Entrambi hanno valutato negativamente la decisione di attuare l’ennesimo, precipitoso sgombero. «Non si discute certo la necessità di evacuare un insediamento le cui condizioni abitative ed igienico-sanitarie sono drammatiche, quanto l’estemporaneità di un’azione attuata senza un’adeguata pianificazione in grado di tutelare la dignità e i diritti delle persone ospitate – hanno dichiarato in un comunicato congiunto -. Per cominciare, nonostante la Prefettura abbia informato gli interessati circa l’operazione di sgombero e offerto ad alcuni la possibilità di trasferimento “a mezzo di pullman messi a disposizione dalla Prefettura di Reggio Calabria presso il Cas – Siproimi (ex Sprar, ndr) appositamente individuato dal ministero dell’Interno”, a nessuno è stata comunicata l’esatta destinazione».
«Non è stato inoltre comunicato – prosegue la nota – se siano previste soluzioni per le persone non inserite nelle liste preparate dalla Prefettura nelle settimane precedenti l’ordine di sgombero immediato. Tutto è avvenuto senza tenere in alcuna considerazione né i diritti individuali dei lavoratori migranti né gli impegni presi da istituzioni e associazioni regionali e locali nella direzione di un’azione graduale e di largo respiro volta all’inclusione sociale, abitativa e lavorativa dei migranti, in grado di favorire lo sviluppo dell’economia locale e di rivitalizzare un territorio sempre più spopolato e depresso».
La richiesta alle istituzioni, dopo sei anni di attività di Medu, è semplice: azioni urgenti e indifferibili per garantire condizioni abitative dignitose e sicure ai lavoratori migranti della Piana di Gioia Tauro, fornendo a tal fine dati e proposte concrete. L’esperienza di questi anni ha infatti più volte dimostrato che soluzioni temporanee, prive di un’accurata pianificazione e che non tengono conto dei bisogni del territorio e delle condizioni individuali dei lavoratori, risultano nel tempo del tutto fallimentari e inutilmente dispendiose.
Ma questo è tempo di “ruspe elettorali” e lo sgombero di San Ferdinando, chiusura “da destra” di un ghetto per formarne altri nascosti e forse peggiori, permette un buon effetto mediatico. Quindi bisogna agire in fretta, prima delle elezioni europee almeno, per dimostrare, parole del ministro dell’Interno che “alle parole seguono sempre i fatti”. Una linea di condotta che sta attraversando il Paese e che riguarda strutture diverse fra loro per storia, dimensioni, problematicità ma con un punto in comune, frantumare un disagio per crearne mille altri. È accaduto con l’ex penicillina a Roma, a Castelnuovo di Porto e ancora più recentemente a Mineo con i Cara finalmente chiusi. Le persone le ritroveremo per la strada, con meno diritti e più fragilità. Forse il pugno duro indurrà qualcuno ad andarsene ma sarà poca cosa. Ce ne accorgeremo presto quando le migliaia e migliaia di persone rimandate in strada torneranno nei luoghi dello sfruttamento perché le persone non debbono esistere, le loro braccia si.