Alcune domande pregiudiziali: l’America di Franklin Delano Roosevelt ha qualche affinità con quella di Donald Trump? Ancora: l’Europa di Ventotene ha tratti che la accomunano a quella di Juncker (e prima di lui Barroso)? Nel 1989 la Storia è finita con l’instaurazione del regno della Libertà liberale o – piuttosto – si sono rotti i sigilli del vaso di pandora della Guerra Fredda con la fuoriuscita di un Turbocapitalismo ormai privo di contenimenti, che imponeva l’assiomatica cannibalesca dell’interesse avido? Ancora più in generale: possiamo chiamare Capitalismo (cioè la ricchezza che si riproduce attraverso l’investimento) questo presidio accaparrativo dei varchi per sottoporre a balzello il transito dei flussi materiali/virtuali, laddove si accumulano le faraoniche ricchezze odierne? Andando sulla congiuntura: è accettabile che il campo competitivo per le prossime elezioni europee di maggio si riduca a due soli giocatori altrettanto imbarazzanti (seppure in misura diversa), quali i sovranisti, che vanno dal Gruppo di Visegrad ai putiniani padani, contrapposti all’aggregato insalata russa pro tecno-buro-Europa, che dovrebbe imbarcare una ciurma altamente eterogenea che svaria dal fils préféré della banca e della Massoneria parigine Emmanuel Macron fino a uno Tsipras ormai declassato a sguattero dalla Troika?
Tanto per dire, in chiave nazionale esiste un’uscita in positivo dall’assunto profilattico, quanto meramente negativo, “né con Salvini, né con Calenda”?
Eppure sull’intera vicenda involutiva, a partire dai suoi lontani pregressi, continua a rimanere calata la cappa del mimetismo a scopo imbonitorio. L’antica tattica del potere illusionistico, che ammanta se stesso nei presunti attestati che ne confermerebbero l’attitudine a incarnare naturalità e verità. L’antico assunto panglossiano del “migliore dei mondi possibili”, trasformato al tempo del fordismo rampante in The Best Way, infine riaggiornato in TINA (There is no alternative, non ci sono alternative) dai ghost writers del duo anglo-americano di profeti e battistrada della restaurazione oligarchico-plutocratica: Margaret Thatcher e Ronald Reagan, i primi massacratori in ordine di tempo degli assetti liberalsocialisti postbellici.
Ossia, la rimozione di ogni possibile opzione divergente come estrema difesa di un ordine morente; per confondere la capacità analitico-strategica degli schieramenti avversari, a partire dai loro modelli di rappresentazione. Già dalla definizione del campo competitivo. Con il supporto indispensabile della stra-collaudata tecnica manipolatoria e diversiva con cui si tende a mettere fuori gioco il dissenso colpevolizzandolo. Il primario meccanismo socio-psicologico che induce sottomissione financo ai soprusi. Per cui uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è quello di squarciare il velo di Maya che offusca nelle vittime la percezione della realtà/reale che li opprime; e – dunque – smascherare le giustificazioni autocelebrative del Potere-Verità. Operazione-alibi che questa fase storica vede messa in pratica stressando all’ennesima potenza la leva comunicativa; come conquista, attraverso le definizioni performative, di una posizione previlegiata e potenzialmente vincente nel terreno di scontro tra conservazione e cambiamento.
Se – in tutt’altro senso – Voltaire e Diderot si attestavano in maniera vincente attribuendosi la luce (non è certo casuale l’appellativo di “illuministi”) e – così – confinavano gli antagonisti nella scomoda e perdente collocazione sul lato oscuro del campo; mutatis mutandis la proliferazione di neo-lingue create per conto della Reazione hanno – di volta in volta – attribuito etichette denigratorie alla controparte di turno: “giustizialisti” per i propugnatori di legalità, “comunisti” per quanti difendevano la funzione democraticamente redistributiva della leva fiscale, oggi “populisti” per i critici delle politiche antipopolari di questi ultimi decenni (il cosiddetto “keynesianesimo privatizzato”: se nella versione originale l’uscita dalla stagnazione economica si otteneva attraverso l’investimento pubblico in funzione anticiclica, oggi l’onere del prelievo è a carico dell’area centrale della società mediante precarizzazioni e impoverimenti).
La fine del patto sociale cementato da coesione e inclusività, già garante della legittima aspirazione alla Giustizia e alla Libertà.
Decadenza e caduta dell’ordine americano
Qui siamo, «sospesi tra due mondi e tra due ere», come il Filomazio protomedico bizantino nella canzone di Francesco Guccini.
Magari lo stato d’animo di chi scruta l’orizzonte, in questa lunga fine da cui non si intravvede un nuovo inizio, assomiglia a quello dei letterati gallo-romani tardo classici – i Rutilio Namaziano, gli Ausonio – che assistevano attoniti all’inarrestabile declino di ciò che per loro era assai più di una città, il luogo dello spirito; la Roma, ritenuta eterna, che irrimediabilmente franava per consunzione endogena, prima ancora che sotto i colpi barbarici.
La differenza è che l’odierna decadenza in procinto di degenerare in caduta non è più quella di una città, bensì di un intero sistema-mondo. In piena crisi terminale e a rischio di subire quella vera e propria mutazione genetica che lo storico dell’economia Giovanni Arrighi preconizzava come “caos sistemico”.
La perdita di centralità negli equilibri globali come vera e propria catastrofe della capacità egemonica di ricomporre il quadro frantumato offrendo un nuovo paradigma ed esercitando la correlata governance. Come era avvenuto in tutto il mezzo millennio del Moderno, nel susseguirsi di centralità politico-economiche (dalla Genova cinquecentesca dei banchieri di Carlo V e Filippo II alla New York del “secolo americano”, passando per Amsterdam e Londra).
Difatti buona parte del Novecento ha parlato anglo-americano. E in tale lingua aveva sancito i principi-guida connotativi valevoli per quella parte del pianeta che definiamo Occidente; il cui vocabolario veicolava valori e modelli democratico-progressisti: New Deal, Welfare State, fino alla Great Society estremo lascito della breve stagione kennediana. Una centralità ormai priva di spinta propulsiva e che si regge su rendite posizionali inette a generare fertili interdipendenze spaziali: il quasi-monopolio del dollaro quale valuta di riserva globale; il presidio dell’ordine mondiale grazie alla più grande macchina bellica mai apparsa nella storia umana (seppure incapace di contrasto delle tattiche di guerriglia, terrorismo in particolare).
Sicché – a differenze delle sequenze del passato – non si profilano all’orizzonte nuove centralità sistemiche, per almeno due impreviste modificazioni intervenute nelle condizioni di funzionamento nelle alternanze delle gerarchie planetarie: la crisi irreversibile dello Stato-nazione, che fungeva da placenta protettiva di nuove egemonie in incubazione; questa finanziarizzazione globalizzata dell’economia, che imprigiona nel suo tempo immobile i mondi della vita.
Difatti analisti economici attendibili come Larry Summers, Paul Krugman e Joseph Stiglitz ormai prospettano l’avvento di una “stagnazione secolare”.
Mentre – come scriveva lo storico Tony Judt nel suo saggio-testamento apparso postumo – nel frattempo “il mondo si è guastato”.
Lo testimoniano punti di crisi visibili a occhio nudo.
Una rottura nel Sistema-mondo odierno che appare insanabile al proprio interno, estesa dalla globalizzazione a larga parte del pianeta attraverso le sue connessioni.
Molti i segnali di non-ritorno in tale rottura epocale; al tempo morale, politica, sociale ed economica. Oltre che crisi di accumulazione, nel passaggio dal capitalismo a base industriale a quello finanziario.
Procedendo all’ingrosso:
La prevalenza del mediocre nella selezione delle leadership e la trasformazione del ceto politico in una corporazione postdemocratica autoreferenziale (la marmellata informe volgarmente denominata “Casta”);
L’ascesa della cleptocrazia, ovvero l’avvenuta legittimazione della finanza criminale da parte di quella legale (paradisi fiscali e organizzazioni di riciclo del denaro sporco, presidio malavitoso di territori e aree di business);
La desertificazione del lavoro organizzato, declassando il cittadino titolare di diritti a “consumatore”, manipolato da tecniche subliminali, cancella ogni contrappeso al comando manageriale capitalistico finanziarizzato;
La creazione di un immenso apparato pervasivo di sorveglianza che vira l’utilizzo delle tecnologie informative, presentate come decisive nella lotta a terrorismo e criminalità, allo scambio fraudolento tra libertà e sicurezza.
Con il punto di irradiamento di questi processi (interconnessi al peggio) corrispondente sempre al centro del presente sistema-Mondo (o “Impero”, come piace dire a qualcuno): gli Stati Uniti d’America e il suo satellite britannico.
La bellezza della lotta
Se per l’intera Prima Modernità (industriale) il karma progressista fu “i filosofi sinora hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”, nella Seconda (finanziario-logistica) diventa quello di “interpretarlo in modo diverso”. Viste le trappole concettuali/comunicative di cui è disseminato il terreno su cui l’istanza di cambiamento è costretta a procedere.
Ma oggi non siamo più al tempo in cui Albert Otto Hirschman ricostruiva le retoriche argomentative di una Reazione sulla difensiva, che partivano dal riconoscimento della bontà della ragione progressista per deviarla ai propri scopi: le tre tesi dell’effetto perverso (ogni rivoluzione sfocia nel suo contrario), della futilità (il tentativo di cambiare le cose è destinato ad abortire) e della messa a repentaglio (ogni progetto innovativo è un rischio per precedenti realizzazioni). Il nostro è il tempo in cui la Reazione guidata dalle oligarchie plutocratiche, dopo aver asservito la Politica ai propri interessi e prosciugato la Democrazia prima in Post-democrazia e poi in Democratura (lo svuotamento delle regole democratiche trasformate in guscio per pratiche autoritarie), presidia esplicitamente tale dominio teorizzandone la superiorità nei confronti di qualsivoglia altro reggimento.
Per questo vale la pena di chiederci quali modificazioni nei rapporti di forza abbiano determinato un tale ribaltamento. La tesi che qui si espone è che tutto ruota attorno alla rimozione del conflitto avvenuta nel corso dell’ultimo quarto del ventesimo secolo. In altre parole, il comando plutocratico non trova più nella sua marcia trionfale nessun ostacolo a fungere da dente d’arresto. Quei contrappesi che erano conseguenti alle lotte vittoriose di due contropoteri novecenteschi che hanno determinato profondi cambiamenti e nuove dimensioni della libertà: il lavoro e le donne. Lotte vittoriose perché si svolgevano nei punti critici dell’ordine sociale (la famiglia) ed economico (il sistema produttivo di fabbrica). Quindi, in grado di bloccare la riproduzione del potere sociale (patriarcale) e di quello capitalistico (il processo produttivo, attraverso l’arma dello sciopero o della sua minaccia).
Situazione azzerata modificando il modo di produrre attraverso il decentramento transnazionale delle imprese foot-loose (senza piedi, disancorate dal territorio) che desertifica l’occupazione nelle economie mature; imprigionando la rivendicazione femminile (femminista?) nelle gabbie ideologiche depistanti dell’individualismo radicale che riduce l’emancipazione a carriera e seduttività. Strategie che hanno declinato in pratiche di normalizzazione l’assunto di base della contro-rivoluzione anti-welfariana: “la società non esiste”.
Sul piano inclinato dallo sfruttamento all’emarginazione.
Con il risultato che ad oggi non è dato riscontrare la presenza di un soggetto che svolga a supporto di una rinnovata instaurazione democratica lo stesso ruolo assunto in altre stagioni dalla “classe generale” aggregata e organizzata attorno al lavoro. Quella classe che non è destinata a riapparire nella stagione post-industriale per ragioni storiche incontrovertibili. Dunque, “che fare?”. È qui che ci fornisce un interessante contributo la “ragione populista”. Ossia quei cantieri di riflessione sorti nelle aree periferiche del dominio anglo-americano in declino. Pensiamo alle esperienze pratiche avvenute nel mondo iberico (Podemos, Barcelona en Comù o le sperimentazioni di Antonio Costa come sindaco di Lisbona) non meno che alle teorizzazioni provenienti da Latino America in materia di neo-gramscismo. In altre parole il tema della costruzione di un soggetto collettivo in grado di supportare efficacemente la reconquista da parte di “maree cittadine indignate” dello spazio pubblico mondiale; ora condannate alla diseguaglianza e all’emarginazione dal kombinat tra plutocrazia finanziario-mediatica e corporazione autoreferenziale di una politica che sequestra la ricchezza del pluralismo democratico attraverso l’uso distorto della rappresentanza (classica la metafora di Fernand Braudel della stanza sopra la sfera rumorosa del mercato in cui il possessore del denaro incontra il possessore del potere regolativo: il contesto in cui prende corpo il Big Business).
Ecco, il pluralismo liberale può riaffermarsi solo con una vigorosa ripresa di cittadinanza attiva che richiede – per dirla nel linguaggio populista alla Ernesto Laclau – “la costruzione del popolo”: l’aggregazione di pezzi diversi di società, orientati a una soggettività coalizionale dalla messa in luce della condizione reciproca di prevaricati. L’essere vittime di un esproprio di futuro che accomuna l’ambientalismo, le molteplici istanze di genere, la legalità, i diritti alla salute e alla cultura, i progetti individuali o collettivi di vita secondo modelli che rifiutano la normalizzazione repressiva e – ultimo ma non certo l’ultimo – il lavoro.
Per inciso, la possibile base di incontro per una Nuova Alleanza Rosso-Verde, visto il successo del Die Grünen tedesco di Katharina Schulze alle recenti elezioni bavaresi; confermato dalle rilevazioni che ne segnalano la crescita in tutti i Land di Germania.
Trend che sembrerebbe rappresentare un massiccio ritorno in campo delle tematiche ambientaliste organizzate. Tanto da far ipotizzare – in questa fase e almeno sul medio termine – che proprio i Verdi redivivi potrebbero fungere da piattaforma federatrice del variegato universo di AltraPolitica. La struttura organizzativa, magari alleata con i soggetti iberici di cui si diceva e qualche altro stato nascente che ancora non scorgiamo, su cui andare ad ancorare le istanze “terze” rispetto agli aspiranti distruttori dell’Europa e i (sinergici a propria insaputa) propugnatori di un continuismo a Strasburgo-Bruxelles che mostra palesi gli stigmi dell’insensatezza.
Ritornando al punto e concludendo con le parole dalla politologa belga Chantal Mouffe, partner di Laclau nel saggio fondativo del neo-populismo contemporaneo: «non sono solo le istanze operaie a essere importanti per un progetto di emancipazione. C’è il femminismo, c’è l’ecologia, ci sono le istanze antirazziste e per i diritti dei gay. Per questo parlo della necessità di stabilire una catena di equivalenze tra tutte queste istanze. Ed è proprio questa catena di equivalenza che chiamo costruire un popolo».
Del resto non si tratterebbe di un’operazione poi così nuova. Visto che dopo la Comune parigina Carlo Marx riformulava il concetto di proletariato includendovi pure gli osti e i barbieri. Un tale precedente come viatico al “conflitto populista” per la riconquista di un futuro – come direbbe Clifford Geertz – anti-anti-democratico?
Pierfranco Pellizzetti già docente di Sociologia dei fenomeni politici e politiche globali all’Università di Genova attualmente insegna Comunicazione alla Scuola politecnica. Collabora con Micromega e Critica liberale. Tra i suoi libri, Italia invertebrata (Mimesis, 2017), Società o barbarie (Il Saggiatore 2015), Conflitto (Codice, 2013), Fenomenologia di Berlusconi (manifestolibri 2009). Il 14 marzo esce per Ombre corte il suo libro Il conflitto populista. Potere e contropotere alla fine del secolo americano.