Un progetto da mille miliardi di dollari su cui la Cina investe dal punto di vista economico e culturale. E che coinvolge Asia, Europa e soprattutto Africa. Così Pechino vuole diventare un punto di riferimento mondiale, con buona pace degli Usa e del presidente Trump

Il rapporto Nomisma – Centro di studi sulla Cina contemporanea sul ruolo dell’Italia nel progetto cinese denominato One Belt One Road (Obor), in cinese Yi dai yi lu, commissionato dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, presenta le linee programmatiche del progetto di sviluppo economico avviato dalla Cina nel 2013, per un valore complessivo di oltre 1000 miliardi di dollari e che è stato inserito addirittura nella costituzione cinese, per segnalarne la fondamentale importanza strategica.
A fronte di un indubbio interesse commerciale dell’Italia, credo sia però opportuno inquadrare il progetto nel più ampio ambito storico delle relazioni fra l’Italia e la Cina, perché, come dicono i cinesi con un motto ormai famoso “Per conoscere il nuovo bisogna ricordare il passato”.
Il passato nella storia fra l’Italia e la Cina ha davvero un significato speciale: nessun Paese occidentale è infatti in grado di vantare una storia così antica di relazioni commerciali e culturali, di idee e di persone, come la nostra penisola. L’Italia è stata il primo Paese “occidentale” ad avere rapporti con l’Impero cinese e, fino al XVII secolo, per oltre un millennio furono quasi esclusivamente gli italiani a consentire una seppur minima conoscenza fra l’Europa e la Cina.
Il retore Floro alla fine del I secolo d. C. riferisce che al tempo di Augusto, quindi dal 69 al 14 a.C., sarebbe arrivata a Roma una ambasceria della terra dei Seres (Cina) dopo un viaggio durato quattro anni, notizia completamente ignorata dalle fonti cinesi.
A stare alle fonti cinesi invece, i romani avrebbero inviato nel 166 d.C. una ambasceria, che arrivò in Cina provenendo dalla zona dell’odierno Viet Nam. Leggiamo infatti nel testo cinese che regnava allora in Roma l’imperatore Andun, cioè Marco Aurelio (121-18 d.C).
Fioriva invece il commercio fra i due imperi e Plinio il Vecchio così stigmatizzava ferocemente gli sfrenati consumi delle matrone romane: «Cento milioni di sesterzi come minimo vengono sottratti ogni anno dall’India, dai Seres e dalla penisola (Arabica). Tanto ci costano il lusso e le femmine». Il Senato romano emanò addirittura un editto per limitarne il commercio. A distanza di 2000 anni sembra di risentire la voce di una nostra pungente giornalista che appunto su una importante emittente televisiva lamenta che i camion cinesi arrivano pieni e tornano vuoti lungo le vie arterie ferroviarie che legano l’Europa alla Cina.
Se fin dal tempo degli antichi romani le merci potevano viaggiare lungo le vie carovaniere dell’Asia centrale e meridionale era perché con passare dei secoli erano stati lentamente costruiti dei percorsi che collegavano la città della Cina occidentale, in particolare la citta di Chang’an, l’odierna Xi’an, capitale dell’Impero Cinese, con il Centro Asia e via via attraverso la Persia ed il Medio Oriente, e il Mediterraneo. Questo insieme di strade, sentieri, via carovaniere a tratti ampie e pianeggianti, a volte strette ed anguste, devono essere immaginate come parte integrante di un complesso di vie di comunicazione paragonabile oggi ad una rete autostradale. Un reticolato di strade e tragitti che si snodava per oltre 8000 chilometri di lunghezza, che non ebbe mai un nome. Fu solo nel 1877, cioè duemila anni dopo la sua realizzazione, che fu chiamata Seidenstraße o via della seta da un geografo tedesco. Per oltre duemila anni era stata semplicemente una rete di piste, che difficilmente erano percorse lungo tutto il percorso da Oriente ad Occidente o viceversa, ma più sovente erano usate solo per un tratto da mercanti che si spingevano oltre i propri confini per scambiare merci comprate altrove. Questa rete di vie di comunicazione ha garantito per millenni un fiorente scambio di merci. Prima fra tutte la preziosa seta, della quale gli abitanti dell’Europa non avevano mai conosciuto l’origine, ma anche e soprattutto scambi di idee e di persone. Il buddismo si diffuse ad Oriente lungo le arterie della via della seta, ma anche religioni cristiane come il manicheismo e il nestorianesimo grazie a questo percorso riuscirono a raggiungere l’Asia centrale. Non possiamo immaginare la storia antica o medievale dell’Occidente senza tenere a mente gli intrecci di lingue e culture, gli scambi scientifici e tecnologici, la matematica e la geometria, e le contaminazioni religiose avvenute fra Oriente ed Occidente, fra Asia orientale, centrale e Medio Oriente, grazie a questa complessa rete di vie comunicazione.
Parliamo spesso – o meglio parlavamo spesso fino a qualche tempo fa – di globalizzazione, un tempo in senso solo positivo, oggi con i nuovi governanti in senso solo negativo, ma in realtà la globalizzazione è sempre esistita, solo con tempi e modi differenti, più lenti, meno frenetici, meno invasivi. La seta cinese si vendeva a Roma fintanto che gli italiani non iniziarono a produrla, ma poi nel XIX secolo una epidemia di bachi da seta fu il principale motore per lo stabilimento di relazioni commerciali e politiche fra il Regno d’Italia e l’Impero Cinese. E ancora le vie carovaniere dell’Asia furono percorse da tanti nostri mercanti che – come il più famoso di loro, Marco Polo – arrivarono nella Cina, al tempo governata dai mongoli, riportando in Europa suggestioni così precise sulla grandezza del continente asiatico, al punto che il racconto dei suoi viaggi, il Milione, spinse Cristoforo Colombo ad immaginare una via navale verso Oriente, passando per Occidente.
Lungo la via della seta arrivarono in Europa nozioni scientifiche, quali l’impiego dei vaccini, la matematica binaria e lo zero e poi scoperte tecniche, come la polvere da sparo e la bussola, oppure pratiche amministrative come il complesso sistema degli esami per l’accesso alle carriere statali di origine cinese, oggi (si spera) ancora in uso nelle nostre democrazie. Troppo lungo sarebbe anche l’elenco dei ritrovati della scienze e della tecnica che a sua volta la Cina ha acquisito dall’Europa, dall’astronomia alla matematica, dalla balistica all’anatomia, alla geografia.
Quella che noi oggi indichiamo genericamente come via della seta è stata una rete di arterie di comunicazioni, per via terreste e marittima, che per oltre due millenni ha legato l’Europa con l’Asia, attraverso lingue, culture e religioni diverse, in un unico grande continente euroasiatico.
Quando nel 2013, durante due discorsi, uno in Kazakistan e uno in Indonesia, il presidente Xi Jinping ha lanciato il faraonico progetto denominato Yi dai Yi lu o Cintura Economica della Via della Seta e Via della Seta Marittima del XXI secolo, pochi si accorsero che la Cina si apprestava a lanciare un progetto di sviluppo internazionale che non ha precedenti nella storia mondiale; un progetto che per la prima volta in 70 anni di storia della Repubblica popolare la vuole spingere oltre i propri tradizionali confini geografici, un tempo segnati dalla Grande Muraglia. L’impegno economico finanziario della Cina sarà circa dieci volte il volume complessivo del Piano Marshall, avviato nel 1947 dagli Stati Uniti verso l’Europa sconfitta. Il paragone non è casuale perché tale impegno cinese viene ora considerato da molti osservatori americani proprio come un progetto di sostegno economico finalizzato a minacciare la politica economica del cosiddetto Washington Consensus.
In questi anni il quadro internazionale e l’atteggiamento del presidente Trump hanno dato ai cinesi motivi ancora più solidi per sfruttare il risentimento di un gran numero di Paesi nei confronti della politica nordamericana verso l’Asia centrale, orientale e meridionale. La Cina ha bisogno di mercati, ma ha soprattutto bisogno di migliorare l’efficienza del proprio sistema economico e per raggiungere questi obiettivi ha deciso appunto di contribuire alla costruzione di una vasta rete di infrastrutture commerciali in grado di assorbire le capacità produttive delle proprie aziende di Stato e al tempo stesso di consentire l’apertura di nuovi spazi per le proprie merci all’estero. L’obiettivo è in primo luogo commerciale, ma ha anche una valenza politica sia in chiave interna che internazionale. L’attuale dirigenza sa perfettamente che solo consentendo un miglioramento del tenore di vita a quella metà della popolazione cinese che non è stata ancora raggiunta da un relativo benessere economico sarà possibile garantire al Paese e quindi alla sua classe dirigente la stabilità politica. A livello internazionale invece il progetto ha lo scopo di fornire al mondo l’immagine di una Cina, per la prima volta superpotenza a livello globale.
Affinché tale imponente progetto possa procedere è necessario che nei Paesi più sensibili alla propaganda statunitense si diffonda invece una nuova immagine della Cina e della sua cultura, non solo Paese del Made in China, ma anche potenza scientifica e culturale, dotata di capacità tecnologiche. Tutto questo non sta a significare un reale desiderio della Cina di diventare un punto di riferimento culturale e politico nel mondo occidentale, come avvenne nel secondo dopoguerra quando gli Stati Uniti imposero il loro modello nella cultura europea, ma solo di creare le condizioni internazionali per continuare a prosperare al suo interno, sfruttando ove possibile le opportunità commerciali ed economiche offerte in Asia, in Europa e soprattutto in Africa.
E l’Italia? Il nostro Paese potrebbe cogliere le opportunità di questo progetto governandolo, per quanto possibile, invece di subirlo, come sembra accadere in questi mesi, fra sterili polemiche giornalistiche e la creazione di gruppi di lavoro ministeriali. Si tratterebbe di prendere sul serio la Cina e la sua lungimiranza intesa come capacità di “guardare lontano”, di immaginare scenari futuri di sviluppo economico e commerciale, ma soprattutto capacità di pensare oltre l’oggi, oltre quello che accadrà alle prossime elezioni di quartiere, nella convinzione che fra 10, 20 o 100 anni il mondo potrebbe non essere uguale ad oggi e potrebbe forse anche essere migliore, laddove riusciremo a valorizzare ciò che il mondo e quindi anche la Cina ci invidia, non chiudendo però gli occhi di fronte alle capacità imprenditoriali dei nostri vicini o lontani. Tenendo sempre bene a mente che, come dice un proverbio cinese: “un albero se lo sposti muore, mentre un essere umano se lo muovi vivrà”.

Federico Masini, sinologo, è prorettore alla didattica dell’Università di Roma Sapienza. Si è occupato di linguistica cinese, storia delle relazioni fra l’occidente e la Cina, letteratura cinese moderna e letteratura cinese vernacolare, temi su cui ha scritto numerosi saggi. Il testo è il discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 18 settembre per la presentazione del rapporto Nomisma – Centro studi sulla Cina contemporanea “L’Italia e il progetto Obor – le opportunità e le priorità del sistema Paese” .

L’articolo di Federico Masini è stato pubblicato su Left del 28 settembre 2018


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