Dal 2 al 7 aprile a Firenze la decima edizione di Middle East Now,
il festival che racconta il Medio Oriente attraverso cinema, arte, musica, incontri, teatro, progetti sociali e cibo. Edizione speciale per i 10 anni del festival, che si è affermato come piattaforma innovativa nel modo in cui presenta la cultura mediorientale contemporanea, oltre gli stereotipi e i pregiudizi che caratterizzano quest’area del mondo. Il film documentario d’inizio Kabul, city in the wind ,è una vera rivelazione, un modo nuovo di sensibilizzare il mondo. Colore di sabbia nelle case, nel cielo, nella terra è la prima cosa che non ti aspetti da un documentario su Kabul, che sai essere teatro di guerra, attacchi da ogni parte , 12 nazioni e 31 fazioni politico-religiose impegnate in Afganistan, che si bombardano in una ridda infernale. Dice Aboozar Amini, giovane regista afgano residente in Olanda, al suo primo lungometraggio, che scene di guerra le aveva collezionate, nei tre anni di girato, ma volutamente non ne ha messa nemmeno una nel film. Due i motivi: quello ovvio di non fare inorgoglire i seminatori di violenza e uno molto più sottile, di assoluta originalità, che la maggioranza degli spettatori non ha esperienza di guerra, e dunque quelle immagini non veicolano per loro il contenuto terribile della realtà. La sua scelta originale è stata di filmare la vita di tutti i giorni di due famiglie, quella di un padre che lavora fuori dell’Afganistan per sostenere una famiglia con tre figli, e quella di Abbas, un autista di autobus, rimasto senza il mezzo, perché gli si smantella per vecchiaia prima che finisca di pagarlo, anche lui con il problema di mantenere i tre figli. La similitudine delle due famiglie è solo apparente. In verità vi è un abisso, e il film lo mostra in modo inequivocabile. Afshin (12 anni) e suo fratello minore Benjamin (6) vivono su una collina fuori Kabul. Sono figli di quell’afgano andato a lavorare in Iran, lasciando l’intera famiglia sulle esili spalle del primogenito.” Fai tu la spesa, non lasciare che ci vada tua madre”. E lui, ubbidiente e anche fiero del ruolo, ci va col fratellino Benjamin. Il viaggio verso il mercato racconta la differenza fra i due: il maggiore non perde occasione per divagasi e divertirsi, il piccolo procede come fosse caricato a molla, canticchiando una canzoncina che dice al gattino giallo di non uscire di casa perché le bombe lo ammazzano. Il terrore è una costante nei suoi sogni e pure nella veglia. Un terrore calmo, che lo pervade e solo raramente viene a galla. Tenta di trasformare in gioco, senza riuscirvi, il suo camminare fra le tombe di una strage di civili, che il padre gli ha descritto con un verismo scioccante: sangue ovunque, la sua faccia sfiorata da una pallottola e la gamba attraversata da un’altra,il suo migliore amico colpito a morte davanti a lui. Parole violente, violenza come e più di quella reale. Ricorda il film Of fathers and sons(2017), di Talal Derki, proiettato alla nona edizione del Middle east now, infarcito di violenza, religione e training al terrorismo dei bambini. Lì Abu Osama, il padre, costruisce consenso fra i bambini per creare una catena di odio e terroristi nelle nuove generazioni. Questo padre rapisce l’infanzia a Benjamin, sperando che si guardi di più dai pericoli, o forse è talmente immerso in una cultura di morte che non è più in grado di rapportarsi ad un bambino. Questo suo parlare anestetizza il grande, devasta il piccolo, che tira pietre verso la città urlando:Sanguina! Ecco che il colore della sabbia, che dicevamo pervade le scene, è una pennellata di superficie sotto cui domina il rosso vermiglio del sangue. E immaginarlo attraverso le parole di Benjamin è più devastante che vederlo. La scelta del regista rilancia la denuncia in modo nuovo e più efficace. E’ il primo film di un conflitto bellico con una scelta di campo netta, che gli ha meritato il premio speciale della Giuria come Miglior Opera Prima al festival IDFA di Amsterdam. E,precedentemente, tanti rifiuti da produttori che volevano una narrazione classica, esplosioni, crolli, cadaveri e devastazione. Diverso totalmente l’approccio dell’altro padre di cui parla il documentario, così preso da problemi di lavoro da mettere in seconda fila gli eventi bellici. Nelle difficoltà materiali conserva una dimensione affettiva indomita-bella la scena di gioco collettivo coi suoi figli, con baci e abbracci particolari verso la bambina- Scherza col cuore e con una saggezza che forse gli viene dall’essere povero, non aver studiato, quindi ignaro di religione, abituato a vivere senza un domani, cercando di aggirare gli ostacoli col prendere in giro se stesso e la vita. Scherza anche con la moglie, accusandola di nascondere i soldi che si guadagna col suo lavoro di ricamo, ben sapendo che, con quello che riesce a racimolare lui, quelli di lei sono spesi fino all’ultimo per sfamare tutti loro. Questo personaggio non è consolatorio, ma apre comunque alla speranza che ciò che conta nella vita di tutti i giorni è il rapporto umano affettivo, non violento, che la vince anche nelle situazioni esterne più disperate.

Dal 2 al 7 aprile a Firenze la decima edizione di Middle East Now,
il festival che racconta il Medio Oriente attraverso cinema, arte, musica, incontri, teatro, progetti sociali e cibo.
Edizione speciale per i 10 anni del festival, che si è affermato come piattaforma innovativa nel modo in cui presenta la cultura mediorientale contemporanea, oltre gli stereotipi e i pregiudizi che caratterizzano quest’area del mondo.
Il film documentario d’inizio Kabul, city in the wind ,è una vera rivelazione, un modo nuovo di sensibilizzare il mondo. Colore di sabbia nelle case, nel cielo, nella terra è la prima cosa che non ti aspetti da un documentario su Kabul, che sai essere teatro di guerra, attacchi da ogni parte , 12 nazioni e 31 fazioni politico-religiose impegnate in Afganistan, che si bombardano in una ridda infernale.
Dice Aboozar Amini, giovane regista afgano residente in Olanda, al suo primo lungometraggio, che scene di guerra le aveva collezionate, nei tre anni di girato, ma volutamente non ne ha messa nemmeno una nel film. Due i motivi: quello ovvio di non fare inorgoglire i seminatori di violenza e uno molto più sottile, di assoluta originalità, che la maggioranza degli spettatori non ha esperienza di guerra, e dunque quelle immagini non veicolano per loro il contenuto terribile della realtà.
La sua scelta originale è stata di filmare la vita di tutti i giorni di due famiglie, quella di un padre che lavora fuori dell’Afganistan per sostenere una famiglia con tre figli, e quella di Abbas, un autista di autobus, rimasto senza il mezzo, perché gli si smantella per vecchiaia prima che finisca di pagarlo, anche lui con il problema di mantenere i tre figli.
La similitudine delle due famiglie è solo apparente. In verità vi è un abisso, e il film lo mostra in modo inequivocabile. Afshin (12 anni) e suo fratello minore Benjamin (6) vivono su una collina fuori Kabul. Sono figli di quell’afgano andato a lavorare in Iran, lasciando l’intera famiglia sulle esili spalle del primogenito.” Fai tu la spesa, non lasciare che ci vada tua madre”. E lui, ubbidiente e anche fiero del ruolo, ci va col fratellino Benjamin. Il viaggio verso il mercato racconta la differenza fra i due: il maggiore non perde occasione per divagasi e divertirsi, il piccolo procede come fosse caricato a molla, canticchiando una canzoncina che dice al gattino giallo di non uscire di casa perché le bombe lo ammazzano. Il terrore è una costante nei suoi sogni e pure nella veglia. Un terrore calmo, che lo pervade e solo raramente viene a galla. Tenta di trasformare in gioco, senza riuscirvi, il suo camminare fra le tombe di una strage di civili, che il padre gli ha descritto con un verismo scioccante: sangue ovunque, la sua faccia sfiorata da una pallottola e la gamba attraversata da un’altra,il suo migliore amico colpito a morte davanti a lui. Parole violente, violenza come e più di quella reale. Ricorda il film Of fathers and sons(2017), di Talal Derki, proiettato alla nona edizione del Middle east now, infarcito di violenza, religione e training al terrorismo dei bambini. Lì Abu Osama, il padre, costruisce consenso fra i bambini per creare una catena di odio e terroristi nelle nuove generazioni. Questo padre rapisce l’infanzia a Benjamin, sperando che si guardi di più dai pericoli, o forse è talmente immerso in una cultura di morte che non è più in grado di rapportarsi ad un bambino. Questo suo parlare anestetizza il grande, devasta il piccolo, che tira pietre verso la città urlando:Sanguina! Ecco che il colore della sabbia, che dicevamo pervade le scene, è una pennellata di superficie sotto cui domina il rosso vermiglio del sangue. E immaginarlo attraverso le parole di Benjamin è più devastante che vederlo. La scelta del regista rilancia la denuncia in modo nuovo e più efficace. E’ il primo film di un conflitto bellico con una scelta di campo netta, che gli ha meritato il premio speciale della Giuria come Miglior Opera Prima al festival IDFA di Amsterdam. E,precedentemente, tanti rifiuti da produttori che volevano una narrazione classica, esplosioni, crolli, cadaveri e devastazione.
Diverso totalmente l’approccio dell’altro padre di cui parla il documentario, così preso da problemi di lavoro da mettere in seconda fila gli eventi bellici. Nelle difficoltà materiali conserva una dimensione affettiva indomita-bella la scena di gioco collettivo coi suoi figli, con baci e abbracci particolari verso la bambina- Scherza col cuore e con una saggezza che forse gli viene dall’essere povero, non aver studiato, quindi ignaro di religione, abituato a vivere senza un domani, cercando di aggirare gli ostacoli col prendere in giro se stesso e la vita. Scherza anche con la moglie, accusandola di nascondere i soldi che si guadagna col suo lavoro di ricamo, ben sapendo che, con quello che riesce a racimolare lui, quelli di lei sono spesi fino all’ultimo per sfamare tutti loro.
Questo personaggio non è consolatorio, ma apre comunque alla speranza che ciò che conta nella vita di tutti i giorni è il rapporto umano affettivo, non violento, che la vince anche nelle situazioni esterne più disperate.