Una svolta di civiltà impressa dalla Corte costituzionale che finalmente colma un vuoto legislativo

D’ora in poi, se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare «umanitaria», o «in deroga», così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico: è quanto ha stabilito oggi una importantissima sentenza della Corte Costituzionale (n. 99, relatrice Marta Cartabia), che ha accolto e risolto un dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla Cassazione, con una ordinanza del 22 marzo 2018. È da rilevare che il presidente del Consiglio dei Ministri aveva invece chiesto che la questione fosse dichiarata inammissibile. Con questa decisione, al contrario, la Corte Costituzionale ha stabilito che la malattia psichica venga considerata alla stregua di quella fisica al fine del differimento pena per motivi di salute.

I fatti

Un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso contro un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità, perché applicabile solo ai casi di grave infermità fisica. Invece in quel caso, il detenuto risultava affetto da «grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione borderline in fase di scompenso psicopatologico», accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici. Nel momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni. Per la Cassazione, trattandosi di una patologia grave e radicata nel tempo, la detenzione determinava un trattamento contrario al senso di umanità. Pertanto sollevava dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena”. Inoltre il detenuto non poteva essere allocato in una Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), posto che quest’ultima non può accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti nel corso dell’esecuzione della pena. In sostanza, per queste persone l’ordinamento non offre alternative al carcere.

La decisione

Tuttavia, secondo quanto stabilito dalla Consulta, la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto.

Si legge infatti nella sentenza: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela”.

Inoltre “la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti – si legge ancora nella sentenza – si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate”.

Da oggi, pertanto, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.

 Il vuoto politico

Per l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, “il provvedimento della Corte risolve finalmente il vuoto legislativo che non prevedeva per la malattia mentale la cura fuori dal carcere prevista dalla norma esclusivamente per quella fisica. Un intervento da tempo atteso che conferma l’importante ruolo della Corte Costituzionale, a cui l’Avvocatura dovrà rivolgersi con sempre maggiore frequenza per arginare l’attuale populismo legislativo sempre più lontano dai principi della nostra Carta”.

Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “in carcere tutti sanno che c’è un disagio psichico enorme. Il carcere stesso è produttore di sofferenza e di malattia psichica. Non è un caso che fra i farmaci più usati, secondo rilevazioni effettuate dagli stessi medici, vi siano gli psicofarmaci. Dunque ci sono tantissimi detenuti con una malattia psichica certificata che potrebbero finalmente essere curati in modo adeguato, fuori da un ambiente a così alto rischio per la salute psico-fisica”.

La Corte Costituzionale ha dunque colmato ancora una volta un vuoto lasciato dalla politica: infatti è doveroso ricordare come la questione dell’equiparazione della malattia psichica con quella fisica era stata già affrontata nel travagliato periodo di discussione della riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe potuto sanare la questione. Ma quel tentativo di riforma si è scontrato prima con la mancata attuazione della delega da parte del precedente del Governo e poi con l’esclusione del tema nel provvedimento approvato dall’attuale esecutivo.