Porre sullo stesso piano il presidente turco e il premier israeliano potrebbe apparire a prima vista una forzatura, un tentativo azzardato. Eppure anche alla luce delle recenti elezioni che hanno dovuto affrontare condividono molti aspetti in comune

Nel suo palazzo imperiale di Ankara il presidente turco Erdogan si muove agitato da quando, lo scorso 31 marzo, ha subito un duro schiaffo alle elezioni municipali. Dopo 17 anni di potere incontrastato, il “Sultano” è uscito ridimensionato dalle urne perché è stato sconfitto per un pelo nella “sua” Istanbul, nella capitale Ankara e, in misura ben più evidente, a Smirne, la terza città del Paese. L’emorragia di voti è stata evidente, la rabbia del presidente e dei suoi delfini palpabile. Da settimane Erdogan strepita, denuncia «brogli» e chiede con insistenza il riconteggio dei voti. Soprattutto a Istanbul dove il suo partito (l’Akp) nega il successo del repubblicano Imamoglu (Chp) e promette che combatterà «per vie legali».

La débâcle elettorale di Erdogan non vuol dire però che la «Turchia ha voltato pagina» come hanno osservato frettolosamente diversi analisti: gli islamisti e i suoi alleati nazionalisti del Mhp, che hanno corso insieme nell’Alleanza del popolo, hanno pur sempre vinto le elezioni con il 51,64% delle preferenze contro il 37,5% del principale blocco d’opposizione rappresentato dall’Alleanza della nazione formata dai repubblicani e dai conservatori del Partito del Bene. L’Akp, inoltre, si è confermato come il principale partito nazionale (44%) e stacca i suoi principali rivali del Chp di ben 14 punti percentuali. Dati importanti da tenere in dovuta considerazione, ma che non possono tuttavia colmare la perdita di Ankara (ora in mano al kemalista Yavas) e soprattutto di Istanbul, prima città del Paese, ma anche luogo simbolico perché è qui che il presidente ha iniziato la sua carriera politica e ha rivestito la carica di sindaco negli anni Novanta. Senza poi dimenticare che notizie negative per il leader islamista sono arrivate anche dal sud est del Paese a maggioranza curda: qui i sostenitori del partito di sinistra filo-curdo Hdp (4% di voti a livello nazionale) hanno ripreso le municipalità che le autorità turche avevano tolto loro due anni fa per i presunti legami tra l’Hdp e quelli che Ankara definisce i «terroristi» del Pkk. Poi, però, l’11 aprile cambio di programma: il Comitato turco (Ysk) ha stabilito che diversi sindaci eletti tra le file dell’Hdp non possono assumere l’incarico «perché sono stati precedentemente rimossi dalle loro funzioni per decreti legislative». Che tradotto più semplicemente vuol dire: la volontà popolare qui è stata di fatto cancellata a causa del clima da caccia al…

 

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola dal 26 aprile 2019


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