Tante volte su queste pagine abbiamo denunciato il linguaggio violento, cinico, lucidamente privo di empatia verso le persone più vulnerabili che il ministro dell’Interno ostenta ogni giorno. «è finita la pacchia» rivolto ai lavoratori migranti costretti a faticare a cottimo in campagna per cifre da fame. «Non è roba nostra, se li riprenda l’Olanda», riducendo a merci i minori non accompagnati a bordo della Sea Watch. «Non vogliamo bambini che arrivano già confezionati» ha ribadito la settimana scorsa. Dietro le parole c’è un pensiero. E quello che traspare da questi discorsi fa venire i brividi. I nazisti trattavano gli ebrei come numeri, annullando completamente la loro realtà umana e sappiamo cosa è accaduto. Il fascismo, come scrive David Bidussa, prese corpo nello stile, «nella lingua di Benito Mussolini» ancor prima del suo essere duce, «tanto nello stile retorico, nell’uso delle forme verbali, nelle modalità del discorso pubblico, quanto nei temi e nelle immagini che quella retorica acquista già negli anni del suo esordio in politica». Che lo studioso riassume così in un saggio edito da Chiarelettere: «Elogio della teppa, antipolitica, autorappresentazione come Italia e dunque definizione di tutti gli avversari politici come Antitalia; sovranismo economico e politica monetaria nazionalista, elogio della famiglia...». Su questi temi «Mussolini costruisce il linguaggio fascista molto prima che esso si incontri con le politiche colonialiste, razziste e antisemite della seconda metà degli anni Trenta». Passando dalle parole ai fatti. Contenuti violenti, discriminatori e razzisti caratterizzano il decreto “sicurezza e immigrazione”, divenuto legge. Il ministro e vice premier Salvini con l’appoggio grillino è presto passato dalle parole ai fatti, negando permessi umanitari, discriminando i migranti, trattandoli come “vite di scarto”. Non è folklore la sua scelta di indossare felpe made in CasaPound. Così come non è stato certo un gesto ingenuo fare un comizio dal balcone di Mussolini a Forlì. Mentre una bambina di quattro anni veniva colpita a Napoli dalla camorra, Salvini, invece di pensare a fare bene il proprio lavoro di lotta alla malavita ha auspicato il ritorno dei grembiuli a scuola per impartire «ordine e disciplina». (A quando le divise da Balilla?). Ricordiamo questi tristissimi episodi (e sono solo alcuni) per rimarcare il contesto in cui è avvenuta la decisione del Salone del libro di Torino di accettare lo stand di Altaforte, editore di CasaPound, che in catalogo ha il nuovo libro-intervista a Salvini e libri sul Terzo Reich. Una decisione inaccettabile. Il direttore Nicola Lagioia ha detto «che all’apologia del fascismo, all’odio etnico e razziale non deve essere dato spazio nel programma editoriale». Parole importanti. Ma anche se il libro di Salvini non sarà presentato è inaccettabile che il Salone del libro, la più importante fiera dell’editoria in Italia, fucina culturale e specchio della migliore cultura del Paese, accetti di fare da vetrina a chi propala una cultura dell’odio, basata su paranoiche teorie come quella attribuita (erroneamente) a Kalergi sulla sostituzione etnica. Teoria complottista citata dal leghista Salvini nel 2016. Difficile dunque non dare ragione a Christian Raimo che ha dato le dimissioni da consulente del Salone, allo storico Carlo Ginzburg che ha deciso di non andare a Torino per «decisione politica», a Settis e Montanari che hanno scritto: «Ci ribelliamo perché certe idee non vanno sdoganate» Comprendiamo l'indignazione di Carla Nespolo dell'Anpi e quella della direttrice Halina Birenbaum del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau che si sono rifiutate di dividere lo stesso spazio con chi, come l’editore di Altaforte, si dice fascista, pensa che il male dell’Italia sia l’antifascismo e che il duce fosse un grande statista. Sperando ancora che, mentre scriviamo, la direzione del Salone decida di mettere alla porta fascisti e negazionisti (decisione arrivata finalmente nella giornata dell'8 maggio) , ci pare importante ricordare ancora una volta che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di espressione, nel rispetto dei valori espressi dalla Carta, nata dalla lotta antifascista. La legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993 vietano l’apologia del fascismo: «La legge n. 645/1952 sanziona chiunque promuova o organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche». Al comizio del primo maggio il segretario generale della Cgil Maurizio Landini giustamente tornava a chiedere lo scioglimento di CasaPound. Nei mesi scorsi il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per lo scioglimento di CasaPound e di gruppi simili i cui membri in Italia - ricordiamolo ancora una volta - si sono resi responsabili di aggressioni squadriste e di imprese criminali. Come quella compiuta dai due violentatori di Viterbo che poi hanno postato il video in gruppi facebook di neofascisti. Siano applicate le leggi! E al contempo lanciamo una grande mobilitazione antifascista. Urge un grande sommovimento culturale, occorre un netto rifiuto di tutte le forme di fascismo mascherate o palesi. Sedersi allo stesso tavolo e discutere amabilmente con chi è armato di spranghe fisiche e mentali non si può fare. Resistenza e rifiuto, le armi della critica, capacità di reagire, questa è la lotta contro l’oppressione che oggi siamo chiamati a fare. Politici di sinistra, intellettuali, giornalisti, facciamo sentire con forza la nostra voce, impedendo che questa peste fascista si diffonda e torni a farsi cultura dominante, dal momento che è già “cultura” di governo. I tribunali e la magistratura faranno il proprio dovere. Risultati importanti si segnalano anche in questi giorni con sentenze come quella del giudice Matilde Betti, che ha accolto il ricorso di una donna richiedente asilo ordinando al sindaco di Bologna di iscriverla all’anagrafe, di fatto intaccando uno dei capisaldi del decreto Salvini. Ma non basta, anche noi dobbiamo fare quotidianamente la nostra parte come operatori culturali e cittadini, studiando e divulgando la storia, accendendo senso critico e passione per il sapere. Dall’annullamento della memoria non può nascere un futuro pieno di senso. Liberiamo l’Italia, liberiamo l’Europa per costruire un futuro veramente democratico e antifascista, andando a votare il 26 maggio. Articolo chiuso in tipografia martedì 7 maggio 2019 alle 15 [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 10 maggio 2019

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Tante volte su queste pagine abbiamo denunciato il linguaggio violento, cinico, lucidamente privo di empatia verso le persone più vulnerabili che il ministro dell’Interno ostenta ogni giorno. «è finita la pacchia» rivolto ai lavoratori migranti costretti a faticare a cottimo in campagna per cifre da fame. «Non è roba nostra, se li riprenda l’Olanda», riducendo a merci i minori non accompagnati a bordo della Sea Watch. «Non vogliamo bambini che arrivano già confezionati» ha ribadito la settimana scorsa. Dietro le parole c’è un pensiero. E quello che traspare da questi discorsi fa venire i brividi. I nazisti trattavano gli ebrei come numeri, annullando completamente la loro realtà umana e sappiamo cosa è accaduto. Il fascismo, come scrive David Bidussa, prese corpo nello stile, «nella lingua di Benito Mussolini» ancor prima del suo essere duce, «tanto nello stile retorico, nell’uso delle forme verbali, nelle modalità del discorso pubblico, quanto nei temi e nelle immagini che quella retorica acquista già negli anni del suo esordio in politica». Che lo studioso riassume così in un saggio edito da Chiarelettere: «Elogio della teppa, antipolitica, autorappresentazione come Italia e dunque definizione di tutti gli avversari politici come Antitalia; sovranismo economico e politica monetaria nazionalista, elogio della famiglia…». Su questi temi «Mussolini costruisce il linguaggio fascista molto prima che esso si incontri con le politiche colonialiste, razziste e antisemite della seconda metà degli anni Trenta». Passando dalle parole ai fatti.

Contenuti violenti, discriminatori e razzisti caratterizzano il decreto “sicurezza e immigrazione”, divenuto legge. Il ministro e vice premier Salvini con l’appoggio grillino è presto passato dalle parole ai fatti, negando permessi umanitari, discriminando i migranti, trattandoli come “vite di scarto”. Non è folklore la sua scelta di indossare felpe made in CasaPound. Così come non è stato certo un gesto ingenuo fare un comizio dal balcone di Mussolini a Forlì.
Mentre una bambina di quattro anni veniva colpita a Napoli dalla camorra, Salvini, invece di pensare a fare bene il proprio lavoro di lotta alla malavita ha auspicato il ritorno dei grembiuli a scuola per impartire «ordine e disciplina». (A quando le divise da Balilla?).

Ricordiamo questi tristissimi episodi (e sono solo alcuni) per rimarcare il contesto in cui è avvenuta la decisione del Salone del libro di Torino di accettare lo stand di Altaforte, editore di CasaPound, che in catalogo ha il nuovo libro-intervista a Salvini e libri sul Terzo Reich. Una decisione inaccettabile. Il direttore Nicola Lagioia ha detto «che all’apologia del fascismo, all’odio etnico e razziale non deve essere dato spazio nel programma editoriale». Parole importanti. Ma anche se il libro di Salvini non sarà presentato è inaccettabile che il Salone del libro, la più importante fiera dell’editoria in Italia, fucina culturale e specchio della migliore cultura del Paese, accetti di fare da vetrina a chi propala una cultura dell’odio, basata su paranoiche teorie come quella attribuita (erroneamente) a Kalergi sulla sostituzione etnica. Teoria complottista citata dal leghista Salvini nel 2016. Difficile dunque non dare ragione a Christian Raimo che ha dato le dimissioni da consulente del Salone, allo storico Carlo Ginzburg che ha deciso di non andare a Torino per «decisione politica», a Settis e Montanari che hanno scritto: «Ci ribelliamo perché certe idee non vanno sdoganate» Comprendiamo l’indignazione di Carla Nespolo dell’Anpi e quella della direttrice Halina Birenbaum del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau che si sono rifiutate di dividere lo stesso spazio con chi, come l’editore di Altaforte, si dice fascista, pensa che il male dell’Italia sia l’antifascismo e che il duce fosse un grande statista.
Sperando ancora che, mentre scriviamo, la direzione del Salone decida di mettere alla porta fascisti e negazionisti (decisione arrivata finalmente nella giornata dell’8 maggio) , ci pare importante ricordare ancora una volta che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di espressione, nel rispetto dei valori espressi dalla Carta, nata dalla lotta antifascista. La legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993 vietano l’apologia del fascismo: «La legge n. 645/1952 sanziona chiunque promuova o organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche».
Al comizio del primo maggio il segretario generale della Cgil Maurizio Landini giustamente tornava a chiedere lo scioglimento di CasaPound. Nei mesi scorsi il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per lo scioglimento di CasaPound e di gruppi simili i cui membri in Italia – ricordiamolo ancora una volta – si sono resi responsabili di aggressioni squadriste e di imprese criminali. Come quella compiuta dai due violentatori di Viterbo che poi hanno postato il video in gruppi facebook di neofascisti. Siano applicate le leggi! E al contempo lanciamo una grande mobilitazione antifascista. Urge un grande sommovimento culturale, occorre un netto rifiuto di tutte le forme di fascismo mascherate o palesi. Sedersi allo stesso tavolo e discutere amabilmente con chi è armato di spranghe fisiche e mentali non si può fare.
Resistenza e rifiuto, le armi della critica, capacità di reagire, questa è la lotta contro l’oppressione che oggi siamo chiamati a fare. Politici di sinistra, intellettuali, giornalisti, facciamo sentire con forza la nostra voce, impedendo che questa peste fascista si diffonda e torni a farsi cultura dominante, dal momento che è già “cultura” di governo. I tribunali e la magistratura faranno il proprio dovere. Risultati importanti si segnalano anche in questi giorni con sentenze come quella del giudice Matilde Betti, che ha accolto il ricorso di una donna richiedente asilo ordinando al sindaco di Bologna di iscriverla all’anagrafe, di fatto intaccando uno dei capisaldi del decreto Salvini. Ma non basta, anche noi dobbiamo fare quotidianamente la nostra parte come operatori culturali e cittadini, studiando e divulgando la storia, accendendo senso critico e passione per il sapere. Dall’annullamento della memoria non può nascere un futuro pieno di senso. Liberiamo l’Italia, liberiamo l’Europa per costruire un futuro veramente democratico e antifascista, andando a votare il 26 maggio.

Articolo chiuso in tipografia martedì 7 maggio 2019 alle 15

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 10 maggio 2019


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