Il ddl “Codice rosso”, una sorta di corsia preferenziale per i reati di violenza e stalking contro le donne, porta con sé troppe carenze logico-giuridiche che rischiano di complicare ulteriormente la - già grave - situazione presente nelle Procure e nei Tribunali d’Italia

L’approvazione del “Codice rosso” volto a inasprire la disciplina penale della violenza domestica e di genere, ha ottenuto l’eco mediatica sperata ed il giudizio favorevole dell’opinione pubblica. In sintesi, ai reati di violenza di genere, molestie e stalking viene attribuito una sorta di corsia preferenziale ovvero di codice rosso, come quello delle emergenze in pronto soccorso, affinché si arrivi celermente all’individuazione dei responsabili. Tuttavia la domanda che sorge spontanea per chi quotidianamente si occupa di queste materie, è se fosse davvero necessaria l’approvazione di un provvedimento in tal senso. Non si fraintenda: la ratio del progetto è assolutamente lodevole e lontana da censure di sorta, tuttavia, concentrandosi sulle questioni meramente tecniche della futura legge e mettendo da parte le ragioni politiche sottese all’approvazione della stessa, occorre chiedersi se il Codice rosso sposti davvero gli equilibri mettendo a disposizione della magistratura e delle vittime nuovi strumenti. La riforma mira a velocizzare l’instaurazione del processo e l’adozione di eventuali provvedimenti. In questo senso, il provvedimento prevede che, nei casi di delitti di genere, gli agenti di polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferiscano immediatamente al Pubblico ministero, anche mediante comunicazione orale, alla quale seguirà senza ritardo quella scritta.

È doveroso evidenziare come, a livello procedurale, tutti gli strumenti disciplinati dalla riforma, vi siano già, basta solo utilizzarli. In particolare, per quanto riguarda l’iscrizione della notizia di reato, il codice di rito, all’art. 335, prevede già ora che il Pubblico ministero scriva immediatamente ogni notizia di reato che gli pervenga. In questo senso, la riforma non sposta, dunque, gli equilibri. Ciò che, invece, cambia è la classificazione di alcune tipologie di reato secondo un codice di importanza (“rosso”), che ne velocizzerà il corso delle indagini. Ma ragioniamo, è davvero necessario e soprattutto utile per la giustizia italiana creare delle procedure a doppia velocità, senza, peraltro, disciplinarne le modalità in maniera puntuale ed organica?

Se, per esempio, alla Procura della Repubblica perviene la notizia di un reato di stalking, questa dovrebbe, secondo la nuova normativa, accantonare le altre indagini – che magari stanno procedendo su un reato di omicidio o di spaccio internazionale di stupefacenti – per concentrarsi, invece, sul predetto reato? L’esempio è volutamente forzato ma non pare lontano dalla realtà: chi deciderà quali reati meritano di essere accantonati a favore dei reati di genere? Il rischio è quello di andare a creare non soltanto delle categorie di reati a doppia velocità ma addirittura fattispecie penali di “seria a” e di “serie b”.

Questo fa riflettere. Eppure, come già detto, gli strumenti per contrastare i fenomeni di violenza sulle donne sono puntualmente disciplinati dal codice di procedura penale nel libro quarto, rubricato proprio “Misure cautelari”. In questo senso, occorre rilevare come il Pm, sotto il costante vaglio del Gip, possa già adesso immediatamente sottoporre l’ipotetico responsabile ad una misura restrittiva, nelle more del processo, per tutelare la persona offesa. Lo stesso Pubblico ministero ha, peraltro, anche la possibilità di convocare immediatamente la persona offesa per sentire le sue dichiarazioni. Forse, al posto di ribadire e rafforzare procedure e strumenti già disciplinati, sarebbe stato opportuno agire sul piano dell’organico in forza presso i Palazzi di Giustizia. In tal senso, l’emblema della grave crisi d’organico che stanno vivendo i Tribunali, le Procure e le Corti, è il caso di Stefano Leo (ucciso da una persona condannata, la cui condanna non è stata eseguita ndr).

Peraltro, lo stesso baco valutativo è stato compiuto, a parere di chi scrive, nella Legge Spazzacorrotti, riforma che ha modificato la norma della prescrizione, sancendo che questa sia sospesa dopo la sentenza – di condanna o assoluzione – di primo grado e ritenendo, infondatamente, che questa fosse la via per diminuire la durata dei processi. Per tali motivi quanto sopra espresso risulta perlomeno incompleto: se da un lato, infatti, l’inasprimento delle pene dal punto di vista del diritto sostanziale deve senz’altro essere accolto con favore, dall’altro lato è doveroso, dal punto di vista tecnico, annotare come il ddl “Codice rosso” porti con sé troppe carenze logico-giuridiche che rischiano di complicare ulteriormente la – già grave – situazione presente nelle Procure e nei Tribunali d’Italia, a discapito anche delle persone offese e degli avvocati. Bene, ma non benissimo.

Alessandro Parrotta è avvocato penalista e direttore di Ispeg ( Istituto Studi politici economici giuridici )