Dal 15 al 22 giugno si svolge la 55a edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Il programma si annuncia ricco ( rassegne, concorso, ricognizioni della produzione audiovisiva italiana a bassissimo budget, extra-industriale ed extra-formato, magnifiche proiezioni in piazza) all’insegna della esplorazione del “Nuovo Cinema” in tutte le sue multiformi possibilità. L’apertura in Piazza del Popolo è affidata al cult Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid) , diretto da George Roy Hill,con Paul Newman e Robert Redford , a cinquant’anni dalla sua uscita. L’evento speciale è dedicato questo anno al cinema italiano: un approfondimento del cinema di genere nelle sue forme più eterogenee: dalla commedia, genere principe di tutto il nostro cinema, alle sperimentazioni più ardite.
Ad accompagnare la retrospettiva ci sarà un volume intitolato “Ieri, oggi e domani. Il cinema di genere in Italia”, a cura del direttore artistico della Mostra, Pedro Armocida, e Boris Sollazzo, pubblicato da Marsilio. Ne parliamo con loro….
Parlare di cinema di genere in Italia significa attivare una nozione estremamente ricca e complessa, voi stessi vi ponete la domanda se si tratti di un seme destinato a dare dei frutti o di una falsa pista, perché in fondo il cinema di genere in Italia c’è sempre stato…
Armocida: Non se abbiamo una risposta rispetto a questa domanda, però l’intenzione iniziale era quella di cercare di capire come il cinema italiano potesse crescere, cambiando il linguaggio cinematografico, rispetto ai generi classici, primo tra tutti il genere della commedia. Quindi l’idea era quella di intercettare un momento in cui il cinema italiano ci è sembrato fosse animato da una tendenza a sperimentare – ed è sempre una cosa pericolosa trattare questioni legate al periodo in cui si vive in un libro perché possono diventare subito vecchie –e la questione del genere noi l’abbiamo vissuta come possibilità di analizzare questa questione della sperimentazione, che ci sembra mancare nel resto della produzione cinematografica. Questi esperimenti – così li chiamerei – almeno in parte sono stati molto azzardati e vedremo se avranno dei frutti, però, ad esempio Il Primo Re, che noi vediamo azzardato, perché al botteghino ha fatto 2 milioni e ne è costati 8, sarebbe ascrivibile ai flop. Invece Matteo Rovere sta girando la serie, in tal senso è un seme su cui cresce qualcosa che fino a qualche anno fa non sarebbe stato immaginabile…
Quindi genere come laboratorio di forme, discorsi, racconti, deviazioni e sovrapposizioni. Come è nata l’idea?
Armocida:Quello che ho cercato di fare almeno in questi anni dentro la Mostra del Cinema di Pesaro – senza dare giudizi sul passato – è cercare di parlare di cinema italiano in maniera un po’ trasversale. L’abbiamo fatto l’anno scorso con lo “sguardo delle donne”; due anni fa “con gli attori”; tre anni fa “con i cambiamenti dello storytelling nei film italiani”. Ora la rassegna potrebbe apparire un po’ debole sulla carta, ti domandi perché questo titolo non quest’altro. E invece nella prospettiva Pesaro abbiamo puntato sul gioco della pellicola: film come quelli di Lucio Fulci piuttosto che Argento o Leone anziché i 10/15 titoli di film per eccellenza o abbiamo accompagnato i film ad occasioni di incontro, come nel caso de L’ultimo Capodanno di Marco Risi . C’era proprio una volontà di far parlare Marco su un film che ha cambiato il suo destino e che in qualche modo quello semina sul periodo successivo….
Messo a fuoco il discorso sui codici visivi, narrativi, i personaggi, le situazioni, le atmosfere del cinema di genere, aprite anche uno spazio di ricerca sulla critica cinematografica e il genere…
Sollazzo: Ci sono dei saggi che fanno male per le modalità con cui la critica affronta il genere. La crisi della critica rispetto a fenomeni come il cinema di genere, come quasi su tutto, se escludiamo la parentesi Truffaut Hitchcock, non è neanche una cosa che si limita solo all’ Italia. La storicizzazione dell’analisi e quello che abbiamo provato a fare su questo versante con i nostri colleghi è complicatissima. Possono far sorridere alcune recensioni che abbiamo visto, ma fanno capire come ci siano dei problemi insiti nella critica che impediscono una valutazione serena. Nel saggio Rivoluzione e repressione su cui ho lavorato, viene fuori come la critica abbia rincorso Western e Poliziottesco, etichettandoli uno a sinistra un genere e l’altro a destra, poi ad analizzarli scopriamo che il western ha fatto film tra i più rivoluzionari in assoluto e dall’altra parte il poliziottesco, che è sempre stato considerato un genere di destra, però racconta la storia di uomini soli al comando, che vanno costantemente contro lo stato, vanno costantemente contro i propri superiori, in lotta contro le istituzioni corrotte e quindi secondo me, secondo un’idea moderna di sinistra, potrebbe essere riconducibile alla sinistra ed è proprio questo il problema della critica ideologica, l’ideologia ha sempre accompagnato una parte della critica e il genere si pressa tantissimo ad essere fuorviato ideologicamente, perché c’è il tema della violenza, dell’action, che potrebbe portare appunto verso una critica più legata alla conservazione, e poi però c’è anche l’ambito della ribellione che invece può essere alla sinistra. Noi siamo partiti probabilmente con una serie di idee, che vengono anche un po’ denunciato dalle impostazioni del sommario, e abbiamo finito anche grazie agli studiosi, ai critici con cui abbiamo scritto, pensando altro o comunque facendo evolvere la nostra le nostre idee e credo che la critica abbia un compito di fronte a fenomeni come questo: deve pensare che il genere è sia testo, ma anche pretesto. Non c’è nessun cinema come quello italiano che abbia usato il genere per andare altrove; la commedia all’italiana è sempre stata un coacervo di generi, in questo senso disgregandola Tarantino L’ha dimostrato e quindi il genere è stato un elemento fondante e fondamentale del cinema d’autore italiano sempre non riconosciuto e non solo per quanto riguarda Sergio Leone che è diciamo l’alfiere più evidente vale anche pensando ad un uomo come Lizzani, che ha fatto solo film di genere….
Armocida: Noi ci siamo sorpresi di fronte alla critica contro Elio Petri , veramente dura, come se fosse il borghese che si mette a raccontare gli operai, un caso limite, proprio lui che era invece da quella parte lì e si sente il fuoco amico che cerca di distruggerlo…
Sollazzo: Forse la critica dovrebbe fare quello che Dino Risi consigliava a Moretti: bravo bravo però adesso spostati che voglio vedere il tuo film e il critico può essere bravo quanto vuo,i ma se non si sposta dal film rischia di non vederlo; deve essere forse più laico…. La cosa che forse c’è riuscita meglio nel libro è proprio aver avuto un atteggiamento molto laico nei confronti di quello che vedevamo e questo ci ha aiutato molto ad affidare a tante persone tante analisi diverse, perché questo ha impedito anche a noi di impostare una visione troppo nostra e invece serviva un’ analisi che fosse a più ampio raggio
E il pubblico, che amava quel cinema, era più avanti della critica, anche solo per una adesione empatica?
Sollazzo: Forse c’era un fatto di empatia, ma non di comprensione al livello in cui comprende la critica. Il pubblico ha meno filtri e se lo fa piacere e basta…. Certamente il discorso sul pubblico pone il problema che il cinema è industria dell’intrattenimento non è solo una forma d’arte, questo non significa che un successo di pubblico consegni il film alla storia del cinema. Tra l’altro siamo poco abituati a capire bene i dati…
Armocida: Nicolò Giuliano mi ha fatto sorridere, perché noi abbiamo fatto un libro che ha in copertina un teaser poster di Lo chiamavano Jeeg robot, un film che è comunemente accettato sia stato un successo; anche se lui dice che Il ragazzo invisibile, che ha ottenuto lo stesso incasso, è considerato da noi un flop… percezioni… immaginario…
E sulla dicotomia tra cinema di genere e cinema d’autore, già da alcuni critici , tra cui Veronica Pravadelli, ricondotto ad un modo di essere del “genere”?
Armocida: Ti rimando al saggio di Marco Giusti e alla prima vera operazione di sdoganamento del genere effettuato da lui al Festival di Venezia durante la direzione artistica di Marco Mueller…
Sollazzo: Marco Giusti ha fatto tantissimo e credo sia stato intelligentissimo da parte di Pedro dedicare l’ultima serata della Mostra di Pesaro a Stracult.
Una domanda provocatoria, potreste spiegare in poche parole perché una Mostra del cinema, un Festival sono utili? Visto che l’argomento dell’utilità viene usato per diminuire i budget ed eliminare manifestazioni preziose sul piano culturale …
Armocida: Un Festival di cinema è un’altra forma, una delle tante forme possibili, di fare critica. Serve a costruire percorsi, dare delle indicazioni, provocare delle scelte; tutto quello che attiene a un pensiero diciamo scientifico-culturale. Ė un percorso di critica, però noi chiamiamo Festival tutto …. Io bene o male faccio da tanti anni il Festival di Pesaro, che è molto identificabile, molto identitario su un certo tipo di proposta culturale, ma non posso dire la stessa cosa di altre manifestazioni, quindi non posso parlare che per me. Non tutti i festival sono tali, alcuni sono delle kermesse, ma non può essere un luogo dove vengono dati dei premi così a caso senza costruire nulla intorno a quello che si sta facendo. Certamente sono sempre meno coloro che possono agire così, perché la parte legata all’evento, al personaggio – senza sempre dare giudizi di valore – va benissimo, ma non è con la formula del tappeto rosso presente in tante manifestazioni che affronti un discorso culturale …. giusto che vengano delle persone conosciute a parlare, a Pesaro ad esempio avremo un incontro tra Banfi e Veltroni, ma non si tratta di cose buttate lì a caso. Io continuo a pensare, finché me lo faranno fare, che è fondamentale unire proposta culturale, esigenze popolari, cioè portare comunque al pubblico anche una persona che al di là del film, ma anche all’interno di un percorso, in cui io sto cercando di costruire una sorta di proposta critica, puoi aggiungere qualcosa al film, ma non sostituirlo. Noi dobbiamo sempre valutare a cosa servono i festival e penso che abbiamo sotto gli occhi che almeno quelli che riescono bene hanno una grande partecipazione di pubblico di pubblico…
Sollazzo: Un festival come la Mostra di Pesaro o altre iniziative di pari livello ci raccontano che le persone prendono e vanno spesso in sala. In luoghi di provincia, le persone abbandonano Netflix, abbandonano gli scarichi legali o illegali, abbandonano la facilità con cui possono accedere all’audiovisivo e decidono di andare in una sala, in una piazza, in un castello a vedere dei film che spesso non fanno notizia…. Il festival è un luogo per andare a vedere qualcosa che forse non vedranno più e non vedranno più in quel modo…. È una proposta culturale di un certo tipo, di qualità… Migliorano le città in cui si svolgono, le riqualificano a livello logistico, mobilitano energie e pensiero, coloro che pensano i Festival non servano sono quelli a cui la cultura dà fastidio, che hanno paura di città un po’ più vitali, che hanno paura delle persone che leggono, che guardano, che pensano. Quindi penso che siano veramente delle occasioni importanti, degli appuntamenti che è sempre più difficile praticare, perché antieconomici, complicatissimi…. Rispondiamo a questa domanda dicendo che i Festival servono! Eccome… Devono essere come Pesaro, è facile… la retrospettiva di genere, al di là di come l’abbiamo creata, parla al critico, al pubblico, alla collettività. In questo senso si può trovare un filo che unisca tutti insieme e dialoghi con tutti. Un festival come quello di Pesaro mi sembra sia la soluzione perfetta, perché rappresenta un modello moderno di Festival che dovremmo portare avanti…