Sostiene di aver subito violenze ed abusi in varie prigioni del Belpaese, ma non può testimoniare ai processi in cui è parte lesa, perché è stato rimpatriato. Secondo i difensori del 45enne marocchino, il provvedimento della Prefettura sarebbe legato alle sue denunce

Perché è stato espulso Rachid Assarag? Ma soprattutto, perché non gli consentono di essere presente in tribunale dov’è parte lesa? Anzi, nei tribunali. Per essere esatti, in questa storia, si parlerà di quelli di Firenze, Prato e Piacenza dove alcuni video – in quest’ultimo caso, forniti dall’amministrazione penitenziaria – hanno impedito alla procura di archiviare le denunce di Assarag.

Perché quest’uomo, cittadino marocchino di 45 anni, ha fatto il giro d’Italia delle prigioni. E delle torture. Per esempio a Firenze, Sollicciano, dove nel 2014, è stato assolto per aver aggredito un agente e per danneggiamenti a un cancello elettronico ma alcuni mesi dopo lui stesso ha denunciato tre agenti di custodia che ora sono accusati di «misure di rigore non consentite dalla legge», uno degli eufemismi per indicare la tortura o comunque gli abusi e le violenze che vengono commessi nelle prigioni del Belpaese, anche grazie alla cronica difficoltà di perimetrare la tortura nei fatti giudiziari complicata dalla discutibile legge varata nel luglio 2017 dal centrosinistra.

Da accusato ad accusatore
I fatti di Sollicciano: Assarag voleva uscire dalla sezione per depositare alla direzione una denuncia per fatti collegati al suicidio di un’altra persona detenuta (dal 2000, 1073 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, un terzo delle morti in carcere) ma l’agente di servizio lo bloccò. Lo stesso poliziotto, si legge negli atti, «ha descritto una condotta dell’imputato molto blanda e ha escluso che si sia verificata una colluttazione». Era il 29 agosto del 2014. Al processo, nel marzo di due anni dopo, il testimone, lo stesso agente “aggredito”, avrebbe ammesso di non aver avuto difficoltà a controllare Assarag, escludendo, «di fatto» una «qualche sorta di violenza». Tuttavia, due suoi colleghi, dalla sala dei monitor collegati alle telecamere, dissero di aver visto un film diverso in cui la situazione stava degenerando poiché «l’imputato stava esercitando forza» al punto da danneggiare la porta automatica. Per il giudice uno di quei testi «non è stato molto chiaro» al punto da impedire che emergesse la responsabilità penale dell’imputato. Il danneggiamento non c’è stato oppure, secondo la sentenza, c’è stato ma allora sarebbe solo doloso visto che Rachid stava facendo di tutto per formalizzare una denuncia.

Anche sulla resistenza, i pubblici ufficiali furono non omogenei nel testimoniare i fatti e il giudice fiorentino, «ai fini della valutazione dell’attendibilità intrinseca delle deposizioni dei testi» ricorda come Assarag sia gravato da numerose denunce per fatti analoghi e, a sua volta, abbia presentato numerose contro-denunce. Gli stessi agenti protagonisti di questo processo furono indicati da lui come responsabili di aggressioni nei suoi confronti. L’attendibilità dei secondini-testimoni fu minata dal fatto che non furono acquisite le immagini della videosorveglianza e le loro versioni non solo non erano sovrapponibili ma nemmeno compatibili.

Per questo il 4 marzo del 2016 Assarag fu assolto e pochi giorni fa, il 12 giugno, tre di quelle guardie carcerarie sono state raggiunte da un decreto di citazione diretta in giudizio per una serie di episodi di violenze e abusi commessi contro Rachid, il 29 dicembre 2014, in diversi luoghi del carcere, pianerottoli, infermeria, nella cella 5 della sezione Transito 1, «in concorso tra loro, e con altro agente allo Stato, non identificato, e dunque in più persone riunite, con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti al servizio». Pugni-calci-schiaffi «misure di rigore non consentite dalla legge», appunto.

Espulsione senza motivazione
Rachid Assarag dovrebbe testimoniare al processo, prossima udienza il 17 ottobre, come richiesto dalla stessa procura, ma finora non è potuto tornare in Italia. E nessuna risposta ufficiale è arrivata a fronte delle richieste dei suoi legali, Fabio Anselmo e Bernardo Gentile, del foro di Ferrara.

L’ultimo carcere in cui è transitato Assarag è quello di Sassari, carcere duro, al terzo posto per presenze di detenuti in regime di 41bis. Qui, l’uomo scontò la pena integralmente, senza alcun beneficio e, una volta liberato, fu immediatamente caricato su una volante ed espulso sotto gli occhi della moglie disperata. Era il 5 settembre 2017. Spiegano a Left i suoi avvocati che si trattò di una misura della Prefettura per «motivi imperativi di pubblica sicurezza», il più discrezionale tra i provvedimenti.

Perdipiù, secondo il Tribunale di Cagliari che l’ha annullata lo scorso 19 ottobre, quella mossa era totalmente infondata. Rachid ha una moglie italiana, si sarebbe potuto mantenere lavorando nella falegnameria di cui la donna è titolare e il documento di allontanamento era «privo di una effettiva motivazione in ordine all’attualità del requisito della “pericolosità sociale”» di Assarag, secondo i giudici cagliaritani della Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini nella Ue. Tutto ciò senza tenere conto «della sua situazione familiare ed economica», «compromettendo il suo diritto di difesa nei procedimenti penali in corso a suo carico» e nonostante le questure di Prato e Piacenza lo avessero autorizzato a rientrare temporaneamente in Italia per presentarsi in tribunale. Tuttavia l’Avvocatura di stato ha presentato appello contro l’annullamento e proprio il 21 giugno si terrà un’ulteriore udienza a Cagliari.

Stesso copione a Prato e Piacenza
Intanto anche a Prato, Rachid è stato prima assolto – e la sentenza è passata in giudicato – dalle accuse della polizia penitenziaria (la versione dell’agente che avrebbe subito la resistenza di Assarag «si palesa essere assai incerta», ha scritto il giudice in sentenza a febbraio del 2018, viceversa sarebbe stato proprio lui, secondo l’accusa, a schiaffeggiare il detenuto) mentre a gennaio 2020, inizierà un processo contro quattro agenti di polizia penitenziaria che lo hanno spintonato e poi pestato «in concorso tra loro e con altri quattro colleghi rimasti ignoti» – lo spirito di corpo sembra essere più importante della Costituzione in certi ambienti – perché avevano scoperto che il detenuto aveva un piccolo registratore appeso al collo. Altre botte anche mentre lo portavano in infermeria, così imparava a ribellarsi «al nostro ordinamento». E dopo le botte un po’ di bugie per montare contro Assarag un’ennesima denuncia per il possesso inesistente di un paio di forbici a punta «inducendo in errore i commissari che, sulla base di tale falsa rappresentazione dei fatti» lo denunciavano per resistenza a pubblico ufficiale.

La tiritera è sempre lo stessa: una serie di denunce da cui scaturiscono quattro-cinque-sei processi per sfiancare il detenuto ribelle, una sorta di mobbing giudiziario che ha visto repliche fedeli anche a Milano, Genova, Imperia. Ovunque le procure, anziché unirle, trattano quelle denunce “a puntate” ma intanto iniziano a procedere sulla base delle denunce di Assarag.

A Piacenza si attende fissazione udienza. In questo caso, sul banco degli imputati per lesioni aggravate ci sono tre agenti della polizia penitenziaria. L’accusa dell’uomo è di essere stato trascinato per i capelli fuori da una cella e di avere subito violenze ed essere stato anche picchiato. Gli agenti sostengono di essere intervenuti perché l’uomo si era barricato. Il pm, al termine delle indagini, chiese l’archiviazione del fascicolo, ma l’opposizione dei difensori, che hanno presentato un video di quei fatti, riportò la vicenda davanti al giudice. «Si tratta di denunce che disegnano un quadro terribile. Per questo è importante fare presto una inchiesta amministrativa e giudiziaria sulle denunce fatte e comunque proteggere l’incolumità di Rachid Assarag», disse all’epoca Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Le difese dei tre indagati invece affermano che non ci siano le prove, e che Rachid Assarag, che stava scontando una condanna di oltre 9 anni, era un detenuto molto problematico con almeno 13 trasferimenti da un carcere all’altro.

La pedagogia della violenza carceraria

Fin dal 2009 è stato trasferito in diversi istituti di pena, tra cui Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella, Piacenza, Bollate. Nel 2014 l’uomo denunciò di essere stato picchiato e minacciato in carcere dagli agenti di polizia penitenziaria quando era detenuto a Parma. La procura decise l’archiviazione nel 2016. «Non so se il sostituto procuratore lo ha fatto per ingenuità o irresponsabilità, ma parlare di lezioni di vita carceraria davanti a quelle registrazioni è peggio che confermare gli abusi – disse Luigi Manconi, a quel tempo, presidente della Commissione diritti umani del Senato – è la legittimazione ideologica e morale della violenza in carcere. Come se li avesse giustificati, legittimati e infine depenalizzati. Parlare di lezioni di vita carceraria è come dire che esiste una pedagogia della violenza. E questo già rende illegale e anticostituzionale quell’istituto».

Nel dicembre 2015 anche l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, avviò un’ispezione. Durante la detenzione a Parma Rachid Assarag registrò frasi e conversazioni degli agenti attraverso un registratore che gli procurò la moglie. Assarag è stato arrestato a giugno 2018 dopo un inseguimento con la polizia nel Comasco. Era tenuto sotto controllo dalla Digos dopo che non si era presentato a Piacenza all’udienza. Quando ha visto gli agenti vicino alla casa di sua moglie moglie, l’uomo è salito su una Opel Corsa ed è scappato a tutta velocità sulla statale Como-Lecco: all’altezza di Albavilla la sua auto si è scontrata con una vettura di passaggio e s’è ribaltata. Subito il rimpatrio in aereo da Venezia. Fabio Anselmo, legale in questa e altre vicende di malapolizia (Cucchi, Aldrovandi, Budroni, Magherini, ecc…) sostiene da allora che l’espulsione di Assarag, dipinto anche come estremista islamico, è legata alle sue denunce di violenze da parte di agenti di Polizia penitenziaria.