Un sito storico da valorizzare, un rione complesso come la Sanità di Napoli, alcuni giovani volenterosi dal passato difficile. Così è nata La Paranza, una cooperativa che gestisce le catacombe di San Gennaro. Una storia di riscatto e di rifiuto della cultura mafiosa

Miryam Cuomo ha 25 anni, gli occhi azzurri e sinceri. I capelli biondi e mossi ricadono sulla maglietta bianca, il tesserino dice: “Miryam, guida”. «Siamo nelle catacombe di San Gennaro, sulla collina di Capodimonte, un banco tufaceo formatosi circa 15mila anni fa», comincia a spiegare di fronte a una ventina di accaldati turisti italiani. Lo sguardo si posa sulle pareti bianche e irregolari illuminate dalle calde luci soffuse che evidenziano le asperità del tufo tutt’intorno. Un’enorme grotta bianca, in cui le voci e i passi rimbombano. Sulle pareti laterali migliaia di interstizi scavati da mani sapienti. «La pietra è facile da lavorare. Grazie al tufo è stato possibile scavare tre diverse basiliche su due livelli». Si passa dal VI al II secolo a.C., un viaggio all’indietro nel tempo.

Miryam racconta aneddoti sulle tipologie di sepoltura presenti: forme terranee, loculi, cubicola ricoprono tutta la pavimentazione. «Si seguiva il nervo tufaceo per scavare». Così si apprende che il rione Sanità era l’ala extra moenia della città. La necropoli passa da pagana a cristiana dopo l’arrivo delle spoglie del primo patrono di Napoli, Sant’Agrippino. Anche i resti di San Gennaro, prima di essere ospitati dal Duomo, erano qui.

Il tour con Miryam prosegue incalzante. Tre gallerie compongono la parte più antica: riproducono la struttura del centro storico di Napoli, la città dei vivi si riflette in quella dei morti. La frescura fa rabbrividire, all’oscurità bisogna abituarsi. La navata centrale si estende per una cinquantina di metri, costellata da altre tombe che potevano ospitare migliaia di corpi. Alcuni affreschi sono ancora visibili, degli uccelli e una croce.

All’improvviso ci si ritrova all’esterno, in un ampio spazio: la basilica di San Gennaro del V secolo, chiusa per 41 anni, ha riaperto il quartiere alla città. Da qui si può scegliere: uscire da dove si è entrati, o direttamente nel centro del rione. «Raccontare ogni giorno la storia della mia città e delle nostre catacombe a persone che non rivedrò più e che ci salutano appagate significa molto per me», Miryam si emoziona parlando di sé: «Ho iniziato lasciando la scuola e ora parlo più lingue, mi sono innamorata delle catacombe, e soprattutto del progetto». È nata sotto al ponte della Sanità, «un ponte che non collega ma che allontana». Il sogno di diventare attrice l’avrebbe presto portata lontano. Scopre un laboratorio di teatro nel quartiere e accede alle catacombe con delle visite teatralizzate. Le viene chiesto di diventare guida. «Io volevo andarmene, e adesso…

Il reportage di Sabrina Certomà prosegue su Left in edicola fino al 27 giugno 2019


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