“They are born equal, but then the curse is set” è lo slogan scelto dal maggiore sindacato islandese per la sua campagna di sensibilizzazione contro la disparità salariale: nella foto sono ritratti due bambini, un maschio e una femmina.
In Islanda la disparità salariale, a differenza di noi, è un tema talmente serio da essere già entrato nell’agenda politica. Non è un caso che la nazione venga citata negli ultimi anni come la migliore al mondo dal World Economic Forum. E non è questione di sensibilità, di cultura e di singole iniziative lasciate al buon cuore di ciascuno: fin dal 2017 in Islanda c’è una legge che costringe le aziende con più di 25 dipendenti di ottenere una certificazione di parità salariale. Chi non ottempera a questo dovere subisce delle sanzioni economiche. Sì, avete letto bene: una multa.
Ed è stata una donna (Vigdis Finnbogadottìr, prima donna presidente della Repubblica e rieletta per quattro mandati consecutivi, dal 1980 al 1996) a portare in Islanda tutte le riforme dedicate alle donne: dall’asilo nido gratuito fino a alle quote di genere istituite nei consigli d’amministrazione di aziende e istituzioni pubbliche, passando per il congedo parentale che viene equamente distribuito al padre e alla madre.
Tra i dati che vale la pena citare c’è che in Islanda, quando diventò un problema nazionale, la disparità salariale si aggirava sul 5/8% mentre in Italia siamo almeno al 10% e nonostante questo, il tema sembra interessare a pochi, come se non fosse un tema che incide fondamentalmente sulla salubrità democratica di un Paese.
E mi sono detto: pensa se proprio in un momento in cui sembra sdoganato il fastidio verso la donna che decide di lavorare qualcuno riesce invece a rilanciare ancora più forte sulle disuguaglianze tra uomo e donna nel mondo del lavoro. Pensa a un’opposizione che s’oppone anche proponendo temi dimenticati dal governo oltre che ripeterci che quegli altri sono cattivi. Tu pensa.
Buon lunedì.