Più affollate di quelle di tutta l’Unione europea, con un tasso di detenzione più alto di quello dei Paesi nordici e della Germania e più basso solo dei Paesi dell’Est Europa, le centonovanta carceri italiane, a oggi, detengono sessantamila e cinquecentoventidue reclusi. Aumentati di 1.763 nell’ultimo anno e di ottocentosessantasette negli ultimi sei mesi. Quelli che Antigone ha analizzato, presentandone i risultati oggi 25 luglio, per rilevarne numeri e criticità.
La prima è che nel 30 per cento delle carceri visitate dagli operatori dell’Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, manca lo spazio vitale, inferiore ai tre metri quadri a detenuto e nel 31 per cento delle strutture i detenuti non possono muoversi mai in autonomia. Cosicché, la vita dietro le sbarre peggiora, essendo sempre più carenti gli spazi verdi e i luoghi di incontro. Che mancano, pure, virtualmente: nonostante la legge lo preveda, nel 65 per cento delle prigioni è vietato avere contatti via Skype, nell’81 per cento non è mai possibile collegarsi a internet e la corrispondenza per mail non è un diritto ma un servizio concesso a pagamento.
Rimangono nella solitudine della vita ristretta e a oziare nel vuoto della cella: nell’ultimo mese, secondo quanto riferito da Antigone, sono stati chiusi diversi corsi scolastici in Campania e nel Lazio e nella casa circondariale di Rebibbia a Roma, l’anno scolastico venturo sarà precluso a circa cento detenute per insufficienza di classi. Nell’anno scolastico ormai concluso, invece, solo il 23 per cento delle persone detenute era coinvolto in corsi d’istruzione. Diritto fondamentale della persona libera o reclusa, negarlo a quest’ultima diventa oltretutto controproducente in termini di sicurezza, oltre a essere una forma straordinaria di prevenzione criminale, se si pensa che chi finisce in carcere, arriva da situazioni di estrema povertà culturale: oltre mille detenuti sono analfabeti – doppiando gli analfabeti liberi – di cui ben oltre trecentocinquanta italiani e seimila e cinquecento hanno la licenza elementare.
Sebbene sia ancora prematuro valutare l’impatto della riforma penitenziaria conclusasi nell’ottobre scorso, con tre decreti legislativi e iniziata con la sentenza Torreggiani (adottata dalla Corte europea dei diritti umani l’8 gennaio 2013 che ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani ndr), e sventoli ancora alta la bandiera della certezza della pena, nel primo semestre di quest’anno, le persone arrestate sono state ventitremila e quattrocentoquarantadue e la tendenza al decremento coinvolge anche gli stranieri che passano dal 44 per cento dello stesso periodo del 2017 al 41 per cento del 2019 e, in dieci anni perdono oltre tre punti percentuali, incidendo sulla popolazione carceraria solo per il 33 per cento ma con una distribuzione regionale poco equilibrata: a contenere il maggior numero di detenuti stranieri è la Sardegna, con l’80 per cento collocato a Is Arenas e il 78 per cento a Nuoro, località individuate con l’obiettivo di isolarli dai territori di vita precedente; il Lazio ne ospita 2.515 ossia un ottavo del totale e la Lombardia un sesto con 3.723 presenze. Che calano di oltre un terzo quando il riferimento è alla popolazione proveniente dalla Romania: oggi sono 2.509 i rumeni reclusi mentre nel 2013 erano 3.661, effetto dell’integrazione e delle seconde generazioni.
Minoranze percettivamente sovrastimate ma in alcuni casi dimenticate: le donne, al 30 giugno, sono 2.632, pari al 4,3 per cento del totale della popolazione ristretta, ospitate in quarantanove carceri italiane e con loro cinquantaquattro bambini. Mentre a casa, ad aspettare che il genitore esca dal carcere, ce ne sono sessantunomila. Sempre che il genitore recluso non vada ad allungare il lungo elenco dei morti in prigione: dall’inizio dell’anno, si sono tolte la vita ventisei persone, di cui dieci nell’ultimo mese. Di carcere si muore ancora: le pene inflitte sono troppo lunghe e senza alternative e la vita in prigione coincide con la vita in cella.