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[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]La storia infinita narra una storia che riguarda ogni bambino che diventa adulto. In essa si dice che il nulla vuole impadronirsi di Fantàsia, il regno dove tutto è possibile, dove il pensiero corre libero e dove i desideri che vengono soddisfatti rendono ancora più saldo e forte il regno dell’imperatrice bambina.
Il nulla vuole il potere su Fantàsia. Ma in verità il nulla non può regnare su Fantàsia. Perché il mezzo con cui il nulla conquista è… se stesso. La sua arma, il suo potere, è far sparire ciò che esiste. Ciò che è, scompare, non è più. È questo il modo paradossale del nulla per conquistare il mondo. Il mondo non viene nemmeno distrutto, perché nella misura in cui venisse distrutto potrebbe essere ricostruito. Esso scompare. Non ne rimane più traccia. Il nulla fa di ciò che è ciò che non è. Fa di ciò che esiste qualcosa che è come se non fosse mai esistito.
La storia narra che la salvezza dal nulla è nelle mani di un bambino. O per meglio dire nella sua voce. Egli dovrà dare un nome alle cose che non lo hanno ancora. Ma in particolare dovrà dare un nome all’imperatrice bambina. Il nome la rende immune dal nulla. Essa non potrà più sparire e con essa il regno di Fantàsia. Il nulla, perso il suo potere di far sparire, non è più… nulla. Come se il suo potere si fosse rivolto contro esso stesso.
Solo con le parole che danno nomi alle cose, il nulla non avrà più il potere di eliminare Fantàsia.
Solo così Fantàsia potrà esistere di nuovo anche in ciò che era stato fatto scomparire, comparendo magicamente… dal nulla.
Atreju, l’eroe puro, senza macchia e senza paura, ricompare a cavallo di Artax, il cavallo che era morto nelle paludi della depressione.
E poi accade che la fantasia esce dal mondo solo immaginario e diventa reale. La favola finisce con Falcor che porta in volo Sebastian, il bambino che non ha dimenticato, dandole un nome, l’imperatrice bambina.
Perché la fantasia può fare di ciò che non è ciò che è. Come se il nulla e il suo potere di far sparire non fossero mai esistiti.
La Repubblica di qualche settimana fa ha pubblicato un articolo che indagava su cosa distingue i giovani usciti dalla maturità con il massimo dei voti da tutti gli altri. La differenza sarebbe la capacità di usare il linguaggio. Quelli che prendono voti alti sono i ragazzi che hanno sviluppato la capacità di usare parole complesse e frasi complesse che gli permettono di elaborare e comunicare concetti complessi. Probabilmente, anzi sicuramente è vero. La capacità di comprendere ma soprattutto quella di saper dire è fondamentale. Ma io penso che si debba fare un passo in più di quello proposto da Repubblica che ne fa una questione di mera accumulazione di parole e di libri letti e poi di influenza dell’ambiente familiare.
Quello che le parole possono e devono dire è del rapporto con gli altri. Perché esse nascono dal rapporto con gli altri.
Il bambino ascolta l’amore contenuto nelle parole che la madre che lo accudisce gli rivolge. Non ne comprende la forma e il significato ma ne comprende il senso che è l’amore della madre. Qualunque sia la lingua in cui tale senso viene veicolato. Egli impara a parlare perché trasforma il suo amore per la madre in un suono. Quel suono che ha il senso dell’amore per la madre poi diventerà parola articolata. E poi dopo ancora simbolo verbale espresso da una linea quando diventerà scrittura.
Il linguaggio del bambino esprime quindi prima di tutto un pensiero d’amore. Le parole che comporrà con la sua voce, facendole simili a quelle ascoltate, esprimeranno nella loro incertezza quell’infinito amore che ha dentro di sé.
Massimo Fagioli la chiamava capacità di amare. È la capacità di amare la realtà fondamentale del bambino. Ed essa viene espressa nelle parole che egli inizierà a comporre con la sua voce.
Quell’infinito amore si trasformerà nelle realizzazioni di rapporto con l’altro essere umano e mano a mano diventerà possibilità di rapporto con il mondo materiale non umano che verrà anch’esso pervaso di affetti. La conoscenza, la possibilità di pensare, di intuire e poi sapere ciò che è nascosto ed invisibile, deriva da questa capacità di amare e di avere rapporto del bambino.
Ogni essere umano ha avuto un’infanzia, più o meno felice. Non voglio qui dire cosa fa la felicità o l’infelicità. Mi interessa solo dire che questo potrà poi comporsi in un alternarsi di essere ed avere.
L’essere del pensiero, della capacità di vedere al di là. Della possibilità di pensare, dell’avere quella fantasia che non può essere intaccata dal nulla nella misura in cui diventa linguaggio articolato, come racconta la storia infinita.
E l’avere della realtà materiale. Certamente necessaria per la sopravvivenza. Certamente pericolosa quando diventa accumulazione che nasconde un’assenza, un nulla dell’essere perché senza capacità di comunicare, di avere rapporto con l’altro essere umano.
Questo giornale fin dal primo numero nel 2006 ha deciso di ribellarsi al nulla del pensiero dominante. E lo ha fatto ospitando una rubrica di pensiero nuovo sull’essere umano.
Una rubrica in cui il suo autore, Massimo Fagioli, ha fatto ricerca. Ma non lo ha fatto nelle chiuse stanze di un laboratorio, in solitudine, aderendo all’immagine consueta dello scienziato solitario e genialoide/pazzoide. Lo ha fatto in quel particolare rapporto con gli altri che si esprime con la scrittura. Aggiustando, modificando, correggendo e aggiungendo, di articolo in articolo, la sua ricerca in pubblico. Con il pubblico che lo leggeva e lo aspettava. Ed è in questo rapporto che ha creato un linguaggio nuovo. Ha dato nomi alle cose del pensiero umano per combattere il nulla.
È dal rapporto che emerge il linguaggio. Ed è per il rapporto che si sviluppa. Quando non è così quello che emerge è un linguaggio freddo, che parla senza avere il senso del rapporto umano anche se può avere un perfetto rapporto con la realtà materiale non umana. È un linguaggio che addormenta o peggio uccide la fantasia perché la sua energia negativa è il nulla.
Ho scritto questi pensieri perché è un po’ di tempo che mi chiedo che cosa sia l’attuale governo italiano ed in particolare il suo ministro dell’Interno che né è di fatto il leader.
Forse parlarne è dargli troppa importanza ed in verità si tratta solo di un personaggio politico di estrema destra come tanti altri ne sono esistiti e che, come tanti altri, passerà e finirà dimenticato.
Ma forse si può capire qualcosa di più del suo successo pensando che esso rappresenta in fondo nient’altro che il nulla.
Perché è facile non pensare, non sentire, non vedere… e quindi non agire.
Se muoiono centinaia e migliaia di persone nel Mediterraneo è più facile non sapere, non vedere, non sentire. È troppo disturbante, stressante, faticoso. Mette in crisi.
Mette in crisi l’idea che la nostra società, il nostro mondo, la società occidentale con il suo infinito potere tecnologico e finanziario, sia una società perfetta, animata dalle migliori intenzioni possibili.
Si potrebbe scoprire che la nostra, al fondo, è una società violenta perché fondata su un pensiero violento. Perché permette, senza battere ciglio, la morte di persone che sono come noi. È un pensiero fascista che dice che quelle persone non sono in realtà come noi.
La società in cui viviamo è una creazione umana. Lo Stato, la Costituzione e le leggi, le istituzioni, i poteri dello Stato, etc. sono tutte creazioni umane.
I diritti e i doveri fondamentali sono quindi espressione della realtà umana e dei rapporti che fanno la società. Non il viceversa. Allora come è possibile questa violenza così assurda sotto gli occhi di tutti?
Ciò che questo governo e Salvini non potranno mai comprendere è che l’uguaglianza e la libertà sono caratteristiche prima di tutto umane che solo poi sono diventate fondamento del vivere sociale e civile e quindi della nostra costituzione e delle nostre leggi.
Se comprendiamo questo allora forse potremo un giorno avere uno Stato che ha come reale fondamento l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, che non è una cosa che è così perché stabilita dalla legge ma perché è una caratteristica universale dell’essere esseri umani, del tutto indipendente da dove siamo nati o da che colore della pelle abbiamo o da qualunque altra caratteristica fisica.
Uno Stato che dice che ciò che fa la realtà umana è l’essere nati punto e basta. E questo è più che sufficiente per garantire diritti di uguaglianza e di libertà indipendentemente da dove si è nati o da quali caratteristiche fisiche si abbiano.
Uno Stato che riconosca che ciò che ci fa esseri umani è la nostra capacità di amare.
Ciò che ci permette di avere rapporto con gli altri e di riconoscerli simili a noi stessi.