Uno sguardo sugli ultimi 25 anni per comprendere le scelte politiche delle due sinistre: quella moderata e quella radicale

Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Lionello Fittante.

Quello che sorprende, nelle ripetute analisi sulle sconfitte della sinistra, è l’incapacità generale di adottare una lettura che vada oltre gli aspetti cronachistici e contingenti. Un evidente limite culturale, prima ancora che politico. Un’incapacità elaborativa degli avvenimenti, che li guarda come isolati tra di loro, luoghi indipendenti, sommatoria di casualità contingenti: un approccio che serve, talvolta, per assolversi. Invece tutto è legato, da un unico filo conduttore, leggibile attraverso un approccio storico, perché la sconfitta non è dell’oggi, ma ha evidenti radici lontane, perché le ragioni della sconfitta sono tutte lì, sul piatto della Storia, ed è la sinistra che non è stata in grado di capire.

Le responsabilità sono tutte dentro le scelte adottate, le politiche espresse, il modo di stare nel Paese, di rappresentarlo, nell’incapacità di leggere la storia, i cambiamenti in atto, nelle proprie azioni o inazioni. Proviamo a guardare allora, prendendo come minimo riferimento gli ultimi 25 anni, un quarto di secolo.

Si tratta di un periodo non breve, entro il quale, per rimanere in Italia, si fa a tempo a passare dal dopoguerra al boom economico, dall’autunno caldo all’edonismo reaganiano, dalla caduta del muro di Berlino a Di Maio-Salvini, dove cambiano intere generazioni. Facciamolo perché non si confondano gli effetti (la comparsa di Renzi, dei 5S, di Salvini) con le cause che li determinano. Allora, pur rimanendo necessariamente in superficie, proviamo ad abbandonare la cronaca, a dare un primo sommario, forzatamente semplificato e minimale sguardo.

La sinistra, al termine della enorme e fondamentale esperienza del Pci, si divide fondamentalmente in due: una “moderata”, maggioritaria, del centro-sinistra, che darà vita a Pds/Ds/Pd, e una minoritaria, cosiddetta “antagonista o radicale”.

Questa costola moderata, attraverso cambiamenti via via più vistosi, muta sostanzialmente pelle nell’affannosa rincorsa al centro, recide le radici, abbandona il metodo, la pratica culturale e politica, anche formativa e di selezione del proprio personale: in una parola, abbandona la sua natura originaria. Si teorizza la vocazione maggioritaria, gli artifizi elettorali o costituzionali, non più la ricerca del consenso, l’esercizio e la conquista dell’egemonia politica e culturale. Si teorizza o comunque si pratica, la conversione da partito di massa a partito liquido, leggero, determinando l’abbandono delle periferie, la diminuzione della partecipazione, e si decreta l’ininfluenza del confronto collettivo.

Una “sinistra”, questa, che partecipa alla personalizzazione della leadership, e apre senza filtri ad una indistinta società civile: ricordiamo la prima intervista della neoeletta Madia del 2008? L’esaltazione della propria inesperienza politica? Cos’altro se non l’apertura sul piano culturale e ideologico al mito dell’incompetenza come garanzia di cambiamento poi ben rappresentato dai 5S? È sotto i governi del centro-sinistra che cambia anche il linguaggio politico, la disinvoltura lessicale che prevale sull’argomentare, si anticipa la sguaiatezza dei social.

Una sinistra inoltre, che introduce il lavoro flessibile, di fatto l’apertura alla precarietà: la precarizzazione del futuro come ineluttabile. Infine, una sinistra menzognera, che chiama ai gazebi il suo popolo, per scegliere il candidato premier sulla base di un programma da sottoscrivere, salvo poi disattenderlo, con quegli eletti in parlamento, per le politiche renziane che nulla avevano a che fare con quanto sottoscritto: un altro sostanziale “tradimento”.

Si sostituisce sostanzialmente l’originaria essenza di sinistra, se pure moderata, con un modello liberista, sul piano delle scelte economiche, e centrista sul piano culturale, e con ciò contribuendo allo sfaldamento della partecipazione: il solo obiettivo che conta diventa “governare”, anche a costo di alleanze contro natura, palesi o sotterranee. Bisogna dirlo chiaramente: si sceglie, nella migliore delle ipotesi, di trasformarsi in un partito moderato di centro.

Contemporaneamente l’altro pezzo della sinistra, quella radicale, antagonista, si chiude sempre più progressivamente in una sorta di identitarismo aristocratico, persino elitario, di testimonianza, neanche buono a marcare la differenza perché marginale. Una sinistra, che nasce minoranza e nel rinchiudersi si fa minoritaria, decide di essere ininfluente. Per paradosso, una sorta di vocazione minoritaria.

Una sinistra quindi, che benché definita radicale, risulta marginale, sempre più frammentata e che prova ormai a sopravvivere con trovate elettoralistiche in cui essa stessa non crede, non già attraverso un progetto ampio, sincero, di lungo respiro. Una sinistra capace di frantumarsi sotto distinguo imperscrutabili, a volte sotto il peso di gelosie politiche e personalistiche, mentre il mondo le cambia sotto i piedi.

Tutti volgono la vista al più su sé stessi (risultati elettorali) e meno su quello che avviene nel Paese, sulle proprie esigenze (vale per tutti, ma la sinistra aveva l’obbligo di differenziarsi): accontentarsi di singole sporadiche e localistiche affermazioni, senza preoccuparsi che anche dove si vince la partecipazione diminuisce. Brillante esempio fu il 40% renziano delle regionali emiliane, in cui contava la vittoria se pure con il solo il 36% degli elettori.

Non porsi il problema della riduzione progressiva della democrazia, che non può che vivere di partecipazione, è un peccato mortale nell’essere sinistra.

Non può sorprendere allora che nell’immaginario collettivo abiti un sentimento che accomuna tutti in un unico enorme calderone indistinto: “e allora quando c’eravate voi?” Perché poi, nell’ambiguità del Pd e nell’identitarismo “radicale”, tutti a definirsi eredi di Berlinguer (di quella tradizione). E quindi allora, tutti, appunto, indefinitamente uguali.

In questo scenario di evidenti ritardi e incapacità del personale politico, si sommano, altrettanto evidenti, i limiti e le responsabilità di certo intellettualismo nostrano: politici e intellettuali, incapaci di farsi e svolgere il ruolo di classe dirigente. Confesso di rimpiangere i Gramsci e i Berlinguer, sul piano politico, ma di rimpiangere anche i Calvino, i Moravia, i Pasolini, gli Asor Rosa: intellettuali e artisti che sapevano intrecciare l’elaborazione con la realtà e l’impegno.

Sono queste scelte e questi limiti che fanno crescere i Renzi, i 5S, i Salvini. Se non ragioniamo su questo sarà difficile interpretare cosa avviene nel Paese, e si rinuncerà a recuperare un rapporto, ad avere un’interlocuzione, non solo con chi non ti vota perché sceglie altro, ma con chi preferisce l’astensione. Perché in fondo, semplicemente, non dovremmo chiederci perché la gente ha abbandonato la sinistra, piuttosto perché la sinistra, in questa Storia, di fatto e nelle sue varie espressioni, ha abbandonato la gente.

Lionello Fittante è cofondatore dell’associazione politico-culturale #perimolti e fa parte del comitato nazionale di èViva