È possibile, in questo momento storico, opporsi ad un governo – qualsiasi esso sia – che abbia lo scopo di tagliare il numero dei parlamentari? L’argomento è indubbiamente spinoso.
Il “gentismo di governo” ha anestetizzato ogni capacità critica: rassegnati ad essere “plebe” per tutta la vita – ché nessuno più le include in un discorso di “direzione dello stato” – le masse popolari hanno convertito l’odio di classe in un sentimento di invidia per l’élite governante. Non potendo farne parte, si consolano pensando che, in futuro, sempre più persone condivideranno la loro condizione di esclusi.
Non può che essere questo, e non altro, il motivo che ancora oggi spinge milioni di italiani ad applaudire a quanti loro promettano di ridurre le loro chances di poter, un giorno, “dirigere lo Stato”: se qualcuno crede ancora alla favoletta dei risparmi, infatti, forse merita davvero di rimanere plebe (e su questo anche Marx avrebbe avuto poco da dire).
Ohibò, ma che sinistra è questa che “insulta” il popolo “sovrano”? Non sia mai, per carità, ma dopo questa tragicomica esperienza di governo e ancor più grottesca crisi, consentiteci almeno di sorridere un po’ di chi ancora crede ai ciarlatani, gialli o verdi che siano (su quelli tricolore del passato, poi, sorvoliamo).
E consentiteci, altresì, di sparger qualche lacrima anche per noi stessi, che dovremmo occuparci di come superare la democrazia liberale (e borghese) e invece ci tocca, contro i nostri stessi interessi, di difenderne i principi nell’interesse di tutti, lasciando il socialismo (e, per i romantici, la rivoluzione) a ben oltre che dopodomani.
Cionondimeno, passate le risa, è tradizione di ogni Paese sano nel quale approdi il ciarlatano di turno a mostrar la miracolosa mercanzia che, ad un certo momento, qualcuno di quelli che osservavano la scena si alzi per scacciarlo a suon di pedate, giusto in tempo perché la fila dei gonzi non riempia tutta la piazza.
Per tirare pedate non serve né la laurea, né altro attestato di merito: basta saper come, e soprattutto dove, colpire.
Orbene, contro il governo che verrà e nell’interesse di quelle masse popolari a cui oggi facciamo ribrezzo, vorrei sommariamente indicare un paio di temi ai quali richiamarsi per fare appello a quanti non siano ammaliati – non ancora o non più – dai ciarlatani di governo: un appello non a questa o quella forza politica del nascente governo morente dei non salviniani, ma alla mobilitazione di tutti coloro i quali non si arrendono allo stantìo gioco dell’alternanza senza alternativa.
In questo scritto voglio concentrarmi esclusivamente sulla questione democratica, rinviando ad altro momento le altre questioni, a partire da quella sociale.
Parto da due argomenti scottanti: la legge elettorale e, appunto, la riduzione del numero dei parlamentari.
Esiste un ottimo argomento per sostenere, nelle piazze, l’approvazione di una legge elettorale proporzionale pura, lo stesso che usano gli ultras del maggioritario per mettere all’angolo i proporzionalisti quando questi ultimi chiedono il ritorno al proporzionale “per tutelare le minoranze”: la legge proporzionale è, in verità, la più maggioritaria delle leggi.
Se c’è una maggioranza tra gli elettori, infatti, la legge proporzionale la riporta pari pari nel Parlamento (purché sia pura, senza premi di maggioranza, sbarramenti o altre storture).
Secondo un ragionamento di classe, che dovrebbe essere il nostro faro (o almeno per me lo è), non c’è legge elettorale migliore del proporzionale, proprio perché di suo non tutela le minoranze: quelle sociali, ovviamente, ovverosia banchieri, finanzieri, dirigenti d’azienda, ereditieri. Queste minoranze, più rimangono tali e meglio è.
Si dirà: ma i partiti politici non rappresentano più le classi (o le alleanze di classi): giusto.
E infatti il problema non è l’assenza della legge proporzionale, ma esattamente quella di un partito della classe maggioritaria, cioè di chi deve lavorare per vivere: non ho dubbio alcuno sul fatto che se siffatto partito esistesse e fosse dato in ascesa nei sondaggi, alcuna legge elettorale maggioritaria o premio di maggioranza esisterebbe nel nostro Paese.
Tutto il resto è un corollario: dalla tutela delle minoranze – ché, fosse per noi, banchieri, finanzieri, ereditieri e dirigenti d’azienda li vorremmo quanto prima nella nostra “maggioranza” di salariati – al rischio dei “pieni poteri” a Salvini (ma qualcuno crede davvero che nell’Italia di oggi ciò sarebbe consentito a un emissario di Putin? Dentro la Ue? Dentro la Nato?).
Quindi, la riduzione dei parlamentari.
In primo luogo, alla ferrea legge del numero assoluto che i pentastellati ed altri novelli oligarchi ostentano, secondo la quale l’Italia è seconda in Europa per numero di parlamentari (dopo il Regno Unito), si potrebbe opporre l’altrettanto ferrea legge del numero relativo, da cui emerge che l’Italia è al sest’ultimo posto in Europa nel rapporto tra numero dei parlamentari e numero di abitanti – solo 1.6 ogni centomila abitanti, praticamente al livello della “democraticissima” Polonia e al di sotto dei 2 del Belgio, del Regno Unito che ne possiede 2.2 come il Portogallo, di Repubblica Ceca e Grecia (2.7), dell’Austria (2.9), di Svezia, Finlandia e Ungheria (3.7), dell’Irlanda (4.9), senza citare le inarrivabili Slovenia (6.3), Cipro (6.5), Estonia (7.6) Lussemburgo (11.2) e Malta (16.4).
In secondo luogo, opporre al taglio dei parlamentari il taglio dei loro stipendi e di altri emolumenti: anziché eliminare un terzo dei parlamentari, perché non abrogare l’ignobile legge del 1965 (governo di centrosinistra, Moro – Nenni) che aggancia lo stipendio a quello dei presidenti di sezione della Cassazione?
Nella gara di chi la spara più grossa, si potrebbe pure sfidare gli sforbiciatori a ritornare all’austerità dei costituenti, i quali non guadagnavano più di tre volte un operaio di terzo livello: per i candidati di quel partito operaio di cui parlavamo in premessa sarebbe solo guadagno. Al contrario, dal divano di casa, avrebbe voglia qualcuno ad invidiare chi lascerebbe la famiglia per tutta la settimana per guadagnare, stringi stringi, poco più di quello che già aveva, ma con in più tutte le rotture connesse all’incarico pubblico (a cui, da oggi, bisogna aggiungere il rischio del ferragosto in Transatlantico, anziché sul transatlantico).
Certo, potrebbe accadere che la politica andrebbe a farla solo chi se la può permettere, cioè quelle minoranze che potrebbero vivere senza lavorare: questa situazione imporrebbe, dunque, di riaprire il ragionamento sul finanziamento pubblico ai partiti e…
Ma meglio affrontare questo e altri spinosi temi la prossima volta, ché in troppi han già bevuto la pozione del ciarlatano intanto che noi eravamo al bar a farci beffe di lui.
Alessandro Tedde (Sassari, 1988), avvocato e giurista con una laurea in diritto costituzionale e un post-laurea in Studi e ricerche parlamentari a Firenze, è fondatore e presidente di Sinistra XXI, think tank per il quale coordina il progetto di ricerca “Democracy as self-government”, con il sostegno di Transform!Europe.