So che non è un argomento da buongiorno, o forse sì, ma è capitato a tutti di vedere andarsene un genitore e di rosolare nel rimorso di non avergli detto tutto, di essersi negato un abbraccio, un ti voglio bene, qualcosa che si è rimandato convinti che tanto ci sarà un domani, un altro spazio in cui fare ciò che c’è da fare e invece niente. La morte è infame, arriva quando hai ancora tutte le carte sul tavolo e tu eri andato a dormire dicendoti che tanto sistemerai tutto domattina.
Ci vorrebbe un libro delle cose non dette perché non si è fatto in tempo. Sarebbe il romanzo più scorticante, doloroso, vero e bellissimo che si possa leggere in giro. Qualcosa che sanguina amore come quelle foto dei tempi in cui anche le macchine fotografiche erano un lusso eppure quando le guardi riesci a intuire tutti i movimenti e le parole dei dieci minuti prima e quelli dei dieci minuti dopo.
Il rimorso di non avere detto qualcosa ai genitori è la distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo essere, il burrone che ci ritroviamo tutti a percorrere prima o poi nella vita ed è una di quelle cose che anche se te la spiegano in cento non la impari mai, non ci riesci a metterla in pratica, ci anneghi anche solo a pensarci.
Pensa se fossimo tutti, quelli che sono orfani e anche quegli altri, a compiere quel passo e a vivere ogni giorno con il cuore spalancato. Pensa quanto sarebbero risibili i piccoli odi quotidiani che qualcuno vuole sventolare come veritieri, come sarebbero piccole le persone che ci incitano a diventare impermeabili.
Vorrei un giorno, tutto il giorno, stare lì, in quel guado, perdermi a leggere tutto e scriverci un editoriale che sembrerebbe quello di un matto, un inno a quelli che riescono a essere quello che vorrebbero, un invito a viverla aperta questa vita che molti vorrebbero costringere negli schemi di un’anaffettività difensiva.
E mentre ci pensavo alla fine l’ho scritto.
Buon venerdì.