Ora è la legge elettorale ma l’esempio è altamente simbolico e significativo: ciò che preoccupa più di tutto nella classe dirigente politica continua a essere il futuro prossimo per garantire la propria piccola rendita personale.
Non ci vuole un genio ad esempio per capire che la progettazione di una nuova legge elettorale sia un punto fondante per il buon funzionamento della democrazia: una buona legge elettorale permette una buona rappresentanza parlamentare e gli ultimi mesi della politica ci hanno raccontato perfettamente quanto il Parlamento sia organo sovrano per le scelte del governo.
Ci si aspetterebbe quindi che la classe dirigente (una classe dirigente degna di questo nome) affronti la discussione su un’eventuale riforma raccontandoci quali siano i vantaggi di una formula rispetto a un’altra, in termini di rappresentatività, di governabilità, di rispetto delle minoranze, di contrappesi della democrazia.
Invece niente. Invece è tutto un inseguire una previsione sulla prossima campagna elettorale (nessuno con uno sguardo un po’ più lungo delle prossime elezioni) cercando il meccanismo migliore per mettere fuori gioco l’avversario di turno. Si pensa alla legge elettorale come clava da agitare sulla testa del proprio nemico senza nessun rispetto allo spessore che il dibattito richiederebbe.
E, se ci pensate, funziona così anche per le scissioni di partito, le alleanze girevoli e mutevoli e per le riforme su economia e lavoro: si tratta la politica e il proprio ruolo nella politica come il servizio a un ristrettissimo arco temporale senza sentire nessun dovere di avere fiato e visioni lunghe.
E così tutto si riduce a discussioni sull’ieri e a immaginazioni solo fino a domani, come un chiacchiericcio senza nessuna pretesa, con una responsabilità ridotta al non affondare.
Ditemi chi di voi affiderebbe la conduzione della propria azienda, a un consiglio di amministrazione così.
Buon lunedì.