Si è detto che è il governo più a sinistra di sempre, e a guardare i profili dei ministri verrebbe quasi da concordare.
Anche il programma è rassicurante, pur nella genericità che sempre accompagna esperienze come questa.
Si parla di beni comuni, di salario, di scuola e di sanità pubblica, di green new deal.
Dopo il governo del triumvirato giallo verde siamo quasi di fronte a una rivoluzione.
Tutto questo per dire che è normale e persino scontato che la sinistra parlamentare abbia deciso di partecipare a pieno titolo a questo tentativo.
Non si trattava infatti di esprimere un giudizio su qualcosa di già conosciuto, ma di accettare una scommessa su un quadro inedito per la politica italiana.
Il punto era aprire una possibilità di cambiamento nel momento più buio, quello in cui sembrava inevitabile precipitare nel nuovo ordine promesso dalla peggiore destra continentale.
D’altra parte era chiaro da subito che questo tentativo avrebbe avuto successo a tre condizioni preliminari.
Il Pd avrebbe dovuto dimostrare coi fatti di non avere alcuna nostalgia per il tran tran liberista del vecchio centrosinistra.
Il M5S avrebbe per parte sua dovuto sviluppare una seria riflessione critica sui 13 mesi di coabitazione con la Lega, ma anche sulla retorica qualunquista e antipolitica che ne ha segnato gli esordi.
Alla sinistra il compito più difficile: partecipare al governo con numeri parlamentari estremamente ridotti, senza rimanere schiacciata da due alleati dal profilo incerto come M5S e Pd.
In questo quadro si inserisce anche la scissione di Renzi, che non cambia il perimetro della maggioranza, ma certamente rischia di mutarne l’equilibrio.
Entra in campo infatti un soggetto autonomo con un chiaro riferimento agli interessi dei potentati economico-finanziari italiani e internazionali, che non nasconde l’intenzione di difenderli senza riserva.
Siamo quindi di fronte ad un esecutivo sorretto da un sistema poroso e indefinito di forze, che possono potenzialmente condurre ad esiti molto diversi.
La caratteristica fondamentale del Conte 2 sembra essere la malleabilità: in assenza di identità e istanze programmatiche forti al proprio interno, l’indirizzo fondamentale deriverà da sollecitazioni esterne e dalla loro capacità di attivare energie parlamentari.
Per la sinistra mi pare un’opportunità e insieme come l’ultima chiamata ad un’assunzione di responsabilità.
In questo momento siamo infatti inconsistenti sul piano organizzativo e istituzionale, ma abbiamo di fronte una maggioranza potenzialmente sensibile alla domanda di giustizia sociale e ambientale.
Abbiamo anche un gancio parlamentare, a cui poterci aggrappare per far valere le nostre ragioni.
Dobbiamo tuttavia sapere che questo può accadere solo se sapremo farle crescere a livello di opinione pubblica e trasformarle in occasione di mobilitazione sociale.
Non sarà l’iniziativa autonoma di nessun ministro a consegnarci il ripristino dell’art.18, un piano serio di lotta ai cambiamenti climatici, una riforma fiscale nel segno dell’equità e della progressività.
È tuttavia vero anche che sulla carta questi e molti altri punti non sono estranei al programma elettorale del M5S, né contraddittori con la spinta che ha portato Zingaretti alla guida del Pd.
Ciò significa che nulla ci sarà regalato, ma che per la prima volta da anni potremmo essere di fronte ad un esecutivo permeabile alle rivendicazioni di movimento.
Abbiamo quindi di fronte un programma di lavoro in due punti.
Evitare la sindrome del governo amico, che ci porterebbe del tutto fuori strada, così come la speculare tentazione dell’opposizione a prescindere.
Investire su campagne capaci di determinare l’agenda della maggioranza, e insieme di insediare nuovamente la sinistra nella società.
Nulla di facile, nulla di impossibile.
Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana