Se proviamo ad uscire dall’ottica emergenzialista con cui i media trattano l’emigrazione, rifiutando la percezione delirante di essere presi d’assalto da torme di sospetti terroristi, potremmo scoprire, non solo che i migranti sono un enorme valore per l’Europa, ma anche che continui spostamenti connotano da sempre la specie Homo. E ne hanno favorito lo sviluppo in un lungo «processo di espansione globale inarrestabile che non ha precedenti nella storia evolutiva dei primati». Lo sostiene il filosofo della scienza Telmo Pievani autore del libro Libertà di migrare (Einaudi) scritto con Valerio Calzolaio, esperto di migrazioni ambientali, che avanza la proposta politica di riconoscere lo stato di rifugiato non solo a chi è costretto a lasciare il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni politiche, ma anche a chi oggi deve partire a causa dei cambiamenti climatici.
Professor Pievani come cambia la prospettiva se guardiamo l’emigrazione dal punto di vista evoluzionistico?
Il nostro libro nasce da un’insoddisfazione riguardo al dibattito pubblico italiano, ma non solo, in cui vediamo i commentatori trattare l’emigrazione come qualcosa di inaspettato, con stupore, quasi fosse un fenomeno contingente da affrontare come un’emergenza. Non ha alcun senso. Ed è sbagliato non solo sul piano politico ma anche scientifico. L’emigrazione va letta in una prospettiva ampia, sia nel tempo che nello spazio. Nello spazio perché è un fenomeno globale, planetario, che ci ha resi umani. Nel tempo, perché ci riguarda da almeno due milioni di anni. Nel frattempo l’umanità ha causato il cambiamento del clima e le popolazioni, come scrive Calzolaio, tristemente sono costrette a spostarsi come milioni di anni fa.
Possiamo dire che la migrazione abbia favorito la nostra evoluzione?
È stata sia la causa che la conseguenza. La migrazione è stata una grande strategia a partire da 2 milioni di anni fa quando il clima diventò instabile. Trovandosi a vivere un ambiente imprevedibile, gli umani compiono una scelta unica che nessun primate fa: migrano, si spostano, continuano ad andare sempre più in là. Si è assistito così a una serie di uscite dall’Africa, in successive ondate, dal Corno d’Africa e dall’area sub sahariana, sempre arrivando nel Medio Oriente (snodo fondamentale da millenni per l’umanità); da lì le migrazioni umane si sono indirizzate verso l’Asia e dall’altra verso il Caucaso e l’Europa, quasi propaggine dell’Eurasia, molto attraente perché ricca di risorse. Tutto ciò ci fa capire che noi europei siamo da sempre migranti.
Nel libro lei distingue fra migranti per necessità e per scelta. Questo passaggio cruciale implica una disposizione mentale di ricerca, di curiosità. Quando scattò il cambiamento?
Avvenne con la nostra specie, Homo sapiens. Anche se probabilmente non accadde subito. Dopo le prime grandi migrazioni, ce ne furono altre 800mila anni fa e poi le nostre, 120/100mila anni fa. Lo spostamento delle popolazioni umane, in particolare dei sapiens, non è avvenuto in splendida solitudine, ma in compagnia di altre specie umane. Va ricordato che Homo sapiens è l’ultima forma umana in mezzo a tante altre che poi si sono estinte. Le prime ondate non mostrano differenze. Ma intorno a 60mila anni fa ci fu un’uscita diversa dalle altre, più veloce, e demograficamente più aggressiva. Ecco il fatto misterioso che attrae gli studiosi. Quelle che vennero allora dall’Africa erano genti più creative e al contempo più invasive. Così rimanemmo da soli espandendoci a livello planetario, essendo capaci di adattarci a qualsiasi eco-sistema. Anche in mezzo ai ghiacci, come dimostra la scoperta di resti di un mammuth cacciato nell’Artico 45mila anni fa pubblicata a gennaio su Science. Già eravamo migranti senza confini.
Che cosa avevano di diverso i sapiens?
Pensiamo che sia qualcosa legato al linguaggio, alla comunicazione, alla capacità di immaginare altri mondi, perché a quel punto la curiosità diventò un elemento fondamentale. C’era già una mente capace di immaginare, questo è tipicamente umano.
A quel punto il migrare non fu più solo dettato da bisogni materiali, ma anche immateriali, da esigenze più profonde?
Sì il fenomeno migratorio nasce per una impellenza legata al clima ma poi nell’evoluzione le cause si mescolano; quel modo di migrare potrebbe anche aver cambiato il nostro modo di vedere e di pensare. Migrare ci ha reso cognitivamente più aperti, ci ha fatto incontrare altre fome umane come i Neanderthal con cui abbiamo convissuto a lungo. Tutto questo ci ha spinti ad esplorare, a mappare, a capire il paesaggio, a muoverci nel territorio. Ripeto, nessun primate ha queste caratteristiche. Le altre specie animali nascono in un luogo, in un ecosistema e vi rimangono, si adattano. Homo sapiens no. Diventa una specie planetaria.
Diversamente dagli animali, non segue un istinto che lo obbliga a reiterare i comportamenti.
Esatto. Vecchie teorie sostenevano che avevamo un cervello adattato specificamente alla savana africana. In realtà noi sappiamo che, se c’è qualcosa tipico dei sapiens, è proprio la plasticità, il nostro non essere specializzati per un ambiente unico. E questo ha scatenato l’evoluzione culturale che ci ha permesso di sviluppare anche le tecnologie, le armi, i tessuti ecc.
Queste «fiammate di innovazione culturale e tecnologica» nel libro sono connesse a cambiamenti nella vita di Homo sapiens come l’allungamento del periodo infantile. Come influì?
È uno dei filoni di ricerca oggi più promettenti. Alcune caratteristiche non sono solo della nostra specie Homo: certi strumenti tecnici venivano prodotti da altre specie prima di noi. E non tutte le specie Homo hanno il cervello grande. Queste caratteristiche si sono indebolite molto. Una invece si è molto rafforzata nel genere Homo ed è proprio l’allungamento dell’infanzia e dell’adolescenza; i dati molecolari lo confermano. Questo mutamento ebbe il suo picco massimo in Homo sapiens. La neotenia è un adattamento costoso. I piccoli della specie Homo nascono inermi, quindi dipendono dal gruppo per il cibo e per il sostentamento. Prolungare quel periodo è dispendioso. Nonostante questo si diffuse. L’ allungamento dell’infanzia e dell’adolescenza ha dato dei vantaggi collaterali notevoli che riguardano il gioco, la sperimentazione sociale e linguistica. Molti esperti oggi pensano che quella sperimentazione sia avvenuta nel rapporto, nel gioco fra i cuccioli fra loro e con le madri. La neotenia ha aperto uno spazio di inventività, di creatività. Un’evoluzione che avviene attraverso l’apprendimento e la trasmissione non genetica, non biologica, ma culturale appunto.
L’arte rupestre nasce grazie a quel periodo?
Sì, alcuni dati usciti di recente lo confermano. Da lì nascono l’arte, la pittura rupestre, le incisioni e più in generale la creazione di oggetti con un valore simbolico, con dei segni, con delle geometrie, con dei pattern che avevano un senso. I più antichi oggetti simbolici vengono dall’Africa. Risalgono a 70mila anni fa pietre ocra incise trovate in Sudafrica. Oggi gli specialisti pensano che nacque in Africa questa particolare capacità simbolica per cui fare un segno su una superficie, tracciare un simbolo, significa qualcosa nel gruppo e scatena l’immaginazione. È di 40mila anni fa l’arte rupestre di Sulawesi. Una bellissima scoperta pubblicata l’anno scorso su Nature. È accaduto in Indonesia dove non ci aspettavamo di trovarla. Nell’arcipelago indo-malese c’è la rappresentazione di un cinghiale tipico di quelle zone, dipinto e inciso in modo molto bello con segni di movimento nel manto. Anche a Sulawesi ci sono mani di uomini, di donne e bimbi impresse in negativo sulla parete della caverna, analogamente a ciò che si vede a Chauvet, a Lascaux, ad Altamira, solo che quelle indonesiane sono più antiche. Parliamo appunto di 40mila anni fa mentre l’arte rupestre europea è di qualche millennio dopo.
Che rapporto c’è fra queste diverse espressioni?
Si pensa che tutto parta dall’Africa poi, migrando 60mila anni fa, quegli esseri umani si portano dietro oltre al linguaggio anche l’arte rupestre, capacità immaginative, la fantasia. Probabilmente gli artisti che realizzarono quelle bellissime opere a Sulawesi erano discendenti dello stesso gruppo di migranti usciti 60mila anni fa dall’Africa, che raggiunsero anche l’Europa.
Nel volume Einaudi curato dall’antropologo Marco Aime, Contro il razzismo, il genetista Barbujani torna utilmente a decostruire l’idea genetica della “razza.” Volendo usare quel brutto termine, possiamo dire che di razza umana ce n’è una sola?
Assolutamente sì. Oltre ogni ragionevole dubbio. Le altre forme che abbiamo incontrato appartenevano ad altre specie biologiche. Anche quando ci potevamo accoppiare e dare origine ad ibridazioni. Eravamo specie diverse anche se geneticamente molto vicine. Se parliamo invece di Homo sapiens, cioè dei 7 miliardi e passa di esseri umani che oggi abitano il pianeta, veniamo tutti da quei gruppi africani migranti di 60mila anni fa. Siamo tutti africani, con piccole differenze di adattamento al clima, legate al colore della pelle, degli occhi, dei capelli. Tratti che possono sembrare appariscenti ma che sul piano biologico non sono niente, sono una manciata di geni che contano molto poco. Se mettiamo insieme tutte queste cose: una origine unica, africana, molto recente, da un gruppo piccolo che poi diventa mobile e promiscuo, il risultato è che non possono esistere razze biologiche umane. Non c’è più alcun motivo biologico, genetico, perché possano esistere.