Per un rincorrersi di coincidenze la neo ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese è stata a lungo prefetto a Milano. Un’esperienza segnata dal tentativo da un lato di non assecondare l’esasperazione del conflitto in salsa leghista – molti sono i provvedimenti repressivi dei Comuni dell’hinterland che la prefetta ha considerato inapplicabili -, e dall’altro lato di assecondare le richieste securitarie provenienti da ampi strati dell’amministrazione meneghina e della popolazione stessa, attuando retate, soprattutto intorno alla Stazione centrale, per garantire la mitica “sicurezza”.
Oggi che, da Milano, si trova proiettata nello scenario nazionale e forse nel ruolo più delicato che le potesse capitare, ovvero sostituire Matteo Salvini al Viminale, Luciana Lamorgese continua a tentare difficili mediazioni. Da una parte l’impegno al vertice di Malta e poi di Lussemburgo, per garantire una ripartizione dei migranti soccorsi in acque internazionali dalle Ong, con un atteggiamento certamente diverso dal predecessore, dall’altra la scelta di far valere i propri poteri mantenendo alcune promesse. E fra le promesse infauste da mantenere c’è per il capoluogo lombardo la decisione di far tornare il centro di accoglienza di Via Corelli a svolgere il ruolo ottemperato fino a pochi anni fa, ossia quello di Cie (Centro di identificazione ed espulsione), rinominato oggi Cpr (Centro permanente per i rimpatri).
La sostanza è la stessa, si tratta, come raccontiamo nel libro Mai Più (edito da Left e acquistabile in edicola e sul sito del settimanale dall’11 ottobre, ndr), di strutture destinate a privare delle libertà personali donne e uomini migranti non in ragione di reati compiuti ma in base al fatto che non possiedono i requisiti necessari per restare sul territorio nazionale. Nel libro spieghiamo e raccontiamo tanto il passato quanto il presente di queste strutture in cui non solo si sono perse tante vite umane ma che, anche facendo un cinico calcolo – come quelli tanto di moda in questi anni eticamente bui – fra costi e benefici, rivelano il fallimento dello scopo dichiarato della detenzione amministrativa.
La struttura di Via Corelli a Milano riaprirà in tempi molto brevi, secondo i rumors del Viminale, alimentati dalle dichiarazioni della stessa ministra. Ma c’è un pezzo non secondario di Paese che rifiuta l’esistenza di queste strutture, a Milano e in tutta Italia. Associazioni, sindacati, forze politiche e centri sociali, ma anche semplici individui hanno dato vita alla rete Mai più lager – No Cpr, che ha indetto un corteo che sfilerà sabato 12 ottobre a Milano, con partenza da Piazzale Piola alle ore 14.30 e arrivo davanti al centro di Via Corelli. La mobilitazione, di carattere regionale ma verso cui stanno convergendo molte realtà, soprattutto del centro nord, chiede non solo la “non riapertura” di un centro di detenzione che tante sofferenze ha prodotto ma l’abrogazione dei decreti Salvini poi convertiti in legge, il non rinnovo degli accordi con la Libia e la riconversione della città in luogo di accoglienza reale per chi fugge.
Il mondo che si va aggregando attorno alla rete Mai più lager è vasto ed eterogeneo, potrebbe essere questo uno snodo di passaggio utile verso la realizzazione di scadenze a carattere nazionale. Altri Cpr stanno aprendo o potrebbero aprire nelle prossime settimane, a cominciare di quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, dove è già stato dato l’appalto al nuovo ente gestore. Sì, perché queste strutture sono da sempre realizzate in spazi di proprietà pubblica, vigilati da personale sottratto ai vari corpi dello Stato (Ps, Carabinieri, Finanza ecc..) ma i servizi, quelli che più rendono in termini economici sono appaltati a enti gestori privati che beneficiano di un sostegno pubblico spesso superiore anche al livello di servizi erogati.
Il vulnus reale resta nell’istituto della detenzione amministrativa. Prevista come extrema ratio soltanto verso coloro che andrebbero espulsi e per cui si intravvede pericolo di fuga, sin dall’inizio, come raccontiamo nel libro, sono invece divenuti luogo di privazione della libertà per ex detenuti che avevano già scontato la propria pena, per persone che avevano perso il lavoro e con esso il diritto a restare in Italia o persone che vivevano di lavoro nero, una piaga – quest’ultima – contro cui poco e male si è combattuto e in cui la persona da colpire è il datore di lavoro e non il prestatore d’opera. E poi richiedenti asilo, badanti, a volte minori, ragazze costrette alla tratta, una umanità varia per cui la sola alternativa sembra essere quella di una precaria invisibilità sotto la perenne spada di Damocle di una deportazione forzata.
Queste strutture, per come sono pensate, per la funzione che svolgono, per l’assenza di garanzie reali, dal diritto alla difesa alla difficoltà per gli operatori dell’informazione di entrarvi e verificare le condizioni di vita, sono irriformabili e vanno chiuse, pensando ad altre soluzioni che vanno delineate e sperimentate considerando come bene primario la tutela delle persone più vulnerabili e il rispetto dello Stato di diritto, o di ciò che ne resta. Per questo la piazza di Milano del 12 ottobre ha una importanza non solo locale. Ce ne saranno altre di mobilitazioni che potrebbero presto sfociare in un unico grande appuntamento nazionale ma c’è soprattutto, attraverso la capacità di ricostruire un discorso pubblico non fondato sull’odio e sulla ricerca del capro espiatorio, di ristabilire una cultura della convivenza civile in un Paese in cui i diritti o sono tali per tutte e tutti, o diventano privilegi.
Per chi vuole ancora aderire alla manifestazione milanese basta inviare una mail all’indirizzo [email protected], per chi vuole saperne di più c’è il nostro libro, in edicola da venerdì 11 ottobre