Lo scrittore e musicista Marco Rovelli ha fatto un lungo viaggio in Kurdistan per ritrovare tracce di Filiz, la guerrigliera dagli occhi verdi che dà il titolo al suo nuovo, intenso, romanzo, pubblicato da Giunti. Un viaggio che gli ha fatto scoprire non solo il coraggio e i valori di questi partigiani che lottano contro l’Isis e contro la stretta autoritaria imposta da Erdogan, ma anche il loro amore per la danza, la musica, la letteratura e la filosofia. Tanto da ritrovarsi, nel folto di quelle lontane montagne, a rispondere a domande su «uno scrittore italiano condannato dalla Chiesa, che si chiama Giordano Bruno», di cui il leader del PKK Ocalan parla in un libro.
Marco, che cosa ti ha colpito della storia di Filiz (“Avesta” era il suo nome di battaglia), tanto da decidere di scrivere un libro proprio su di lei e non su un’altra delle molte guerrigliere che conbattono nelle file del PKK curdo?
Avevo letto un’intervista su Foreign Policy, mi aveva colpito il suo volto, dolce e quasi intimidito dall’obiettivo, e la forza delle sue parole. Dopo qualche giorno è arrivata la notizia della sua morte. Ho sentito che dovevo raccontare la sua storia. Nella scrittura non si deve razionalizzare tutto, bisogna lasciarsi trascinare dall’imponderabile. L’ho fatto, e ho scoperto una persona straordinaria, che davvero incarna la sostanza più profonda e intensa del popolo curdo e della sua lotta.
Andando in Kurdistan a parlare con le persone che l’avevano conosciuta che cosa hai scoperto di lei? Quali ragioni profonde la motivavano?
A un certo punto, nella propria adolescenza, Filiz, che diventerà Avesta, scopre di non essere quel che credeva. Prima ha visto gli orrori dei turchi, e lì ha scoperto di non essere turca; poi ha scoperto di essere curda, di appartenere a una cultura diversa, fatta di elementi che lei stessa non conosceva. La danza e la musica, ad esempio, sono elementi decisivi per lei. Ma anche il poter partecipare in quanto donna a delle riunioni, cosa che prima mica si immaginava. L’identità non è tanto il passato, quanto le possibilità di essere qualcosa di nuovo, le possibilità di creare: e una partigiana come Avesta è questo che sceglie di fare, creare nuove possibilità di vita.
I libri, la cultura, la ricerca sono elementi che alimentano la vita in clandestinità di queste ragazze nonostante la durezza della quotidianità da guerrigliere?
Lo studio, la lettura e la discussione sono le attività che impegnano i guerriglieri per la maggior parte della loro vita quotidiana in montagna. Questo perché si tratta, per loro, di trasformare la propria mentalità, soprattutto. Salire in montagna ha un che di trasformazione radicale della vita. Dopo la salita in montagna si è persone nuove, si abbandona la propria vita precedente. Si studia per comprendere il mondo e se stessi. È così mi sono trovato a parlare, nel deserto iracheno, di Wallerstein, di Giordano Bruno, di Dostoevskij.
Nella loro lotta anche per l’emancipazione delle donne, oltre che per libertà e democrazia, leggi qualche analogia con le partigiane che hanno fatto la Resistenza, pur con tutte le differenze storiche?
Ci sono, certo. La partecipazione delle donne nella lotta di Liberazione è stata un momento decisivo per l’emancipazione di genere. Dopodiché i contesti sono molto diversi. La diversità sta soprattutto nel fatto che per i curdi legati al PKK la lotta non è solo contro i turchi per lo stato nazione (cosa che da quindici anni peraltro è stata abbandonata in nome del con federalismo democratico), ma anche all’interno della stessa società curda contro il potere dei clan. Il feudalesimo che è nel medesimo movimento società patriarcale. Emancipare la donna, o meglio emancipazione della donna, inteso come genitivo soggettivo.
I tuoi libri nascono da una potente e precisa fusione fra realtà e finzione, hai lavorato così anche per La guerriera dagli occhi verdi? L’impressione leggendo è che l’immaginazione e il racconto ti siano servite anche per tratteggiare più in profondità la realtà interiore della protagonista fra infanzia e realtà adulta.
Ho cercato di essere Fedele alla storia così come l’ho ricostruita parlando con i guerriglieri che hanno combattuto con Avesta e con la sua famiglia. Ma poi ci ho lavorato come per un romanzo, sia colmando alcuni buchi (pochi), sia drammatizzando la narrazione, i personaggi, le vicende. La costruzione è stata quindi molto diversa dai “reportage narrativi” del passato, quando raccoglievo le storie e cercavo di restituirle con gli strumenti letterari, ma sempre dall’esterno, con l’inserzione del testimone che sta sulla scena (il sottoscritto, intendo). In questo caso ho immaginato di entrare nella mente e nello sguardo di Avesta, per entrare nella sua anima, per vedere il mondo dal suo punto di vista, per farla vivere – prima ai miei occhi, poi agli occhi del lettore. E, in fondo, credo di aver messo in scena una tragedia contemporanea. Nel senso che nella vicenda di Avesta ho visto quei caratteri eterni proprio delle tragedie greche: il destino, la scelta del destino come vera libertà, la catena di sangue, nel rapporto che legava Avesta e fratello come non vedere quello tra Antigone e Polinice…
Le guerrigliere curde si trovano a combattere una triplice battaglia, contro la società patriarcale, contro l’Isis e il governo autoritario di Erdogan. A che punto è la loro lotta?
È una lotta durissima proprio perché il supporto internazionale non c’è. A parole piace a tutti la donna che combatte il barbaro dell’Isis. Ma nei fatti le considerazioni geopolitiche fanno sì che i curdi vengano lasciati a loro stessi, carne da macello come è da sempre. I curdi possono trovare aiuto solo in loro stessi.