Abbiamo esultato quando Facebook ha oscurato le pagine dei fascisti del III millennio, come CasaPound e Forza nuova. Ma quando sono state prese di mira testate online di contro informazione di sinistra, da Dinamo press a Radio onda d’urto per poi arrivare a oscurare anche le pagine di gruppi come Rete Kurdistan di solidarietà con il popolo curdo, non ci è piaciuto affatto. Oltre a fare profitto con i dati e le informazioni che tutti noi, volenti o nolenti, regaliamo ai social media e a siti come Amazon o Google ogni volta che ci connettiamo, le grandi piattaforme (a cominciare da Facebook) decidono al posto nostro quel che dobbiamo leggere o meno. È il mitico algoritmo a dettare legge. Come in un castello kafkiano “decide” quali notizie debbano avere maggiore visibilità, stabilendo di volta in volta i nuovi parametri per definire la rilevanza dei nostri contenuti. Sui quali mister Zuckerberg fa comunque profitto. Dagli inizi del web (quando - dopo gli esordi in ambito militare - cominciò ad essere utilizzato per scambiarsi informazioni più velocemente in settori universitari e di ricerca) a oggi sembrano essere trascorse ere geologiche. Perciò abbiamo chiesto a un esperto come Sergio Bellucci di ripercorrere i grandissimi cambiamenti che ci sono stati e di illuminarci sugli scenari che si aprono legati all’intelligenza artificiale. Orizzonti interessantissimi che ci mostrano come l’innovazione e la tecnologia possano potenziare le nostre possibilità di espressione, di movimento, di realizzazione umana. Ma al tempo stesso preoccupanti, se pensiamo agli usi che ne possono fare la criminalità, governi autoritari e piattaforme private che, in nome del profitto a tutti i costi, vorrebbero ridurci a meri consumatori. Scenari nuovi si aprono anche sul versante forense come ci spiega l’avvocato Ernesto Belisario parlando di frodi, manipolazione delle notizie, violazione della reputazione e, indirettamente, di cyberbullismo. Pensiamo, per esempio, a quali e quanti danni possa fare la circolazione di falsi video (qui entriamo nell’universo del deep fake) che mostrino una persona mentre dice o fa cose che non ha mai detto e fatto. Pensiamo a cosa potrebbe significare tutto questo nell’ambito di processi. Beninteso non è la tecnica il problema, ma l’uso che ne viene fatto. Questo riguarda anche temi di cui si parla molto oggi, ovvero, la profilazione e l’uso dei big data. Se già è abbastanza fastidioso essere “schedati” a tutto vantaggio di inserzioni di pubblicità ad hoc come già avviene online, tanto più preoccupante è pensare che questi dati possano essere utilizzati per controlli di regime. Un uso certo non rassicurante è quello che ne fa già il governo cinese che assegna ai cittadini patenti a punti in base ai loro comportamenti. La grande questione che si pone oggi è chi e come controlla le piattaforme. A ben vedere perlopiù sono aziende che aspirano ad essere monopoliste. La maggior parte, le più potenti oggi, sono di proprietà nordamericana o cinese. Il nuovo imperialismo passa da lì, dal capitalismo delle piattaforme. Ce lo racconta bene il sociologo bielorusso Evgenij Morozov, autore di saggi come Silicon Valley, i signori del silicio e L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (pubblicati in Italia da Codice edizioni). Con sguardo lungo, già un paio di anni fa il leader del Labour party Jeremy Corbyn aveva tematizzato la questione della proprietà delle piattaforme, proponendo l’idea di crearne una pubblica, in grado di diffondere contenuti di qualità, eliminando fake news, hate speech e troll. Qualcuno irrise la proposta dandogli del vecchio socialista utopista. Noi pensiamo invece che la sinistra non possa esimersi da un’analisi approfondita di questi fenomeni e dall’avanzare proposte progressiste che incoraggino l’innovazione, lottando contro le disuguaglianze, anche in ambito epistemologico. Occorre studiare, avere una visione chiara delle gigantesche trasformazioni in atto, servono nuove strategie per garantire la democrazia, il diritto alla conoscenza e l’accesso alle nuove tecniche da parte di tutti, mettendo a punto - perché no? - strumenti di controllo pubblico sulle piattaforme e sull’uso delle tecnologie più avanzate. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 25 ottobre

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Abbiamo esultato quando Facebook ha oscurato le pagine dei fascisti del III millennio, come CasaPound e Forza nuova. Ma quando sono state prese di mira testate online di contro informazione di sinistra, da Dinamo press a Radio onda d’urto per poi arrivare a oscurare anche le pagine di gruppi come Rete Kurdistan di solidarietà con il popolo curdo, non ci è piaciuto affatto.

Oltre a fare profitto con i dati e le informazioni che tutti noi, volenti o nolenti, regaliamo ai social media e a siti come Amazon o Google ogni volta che ci connettiamo, le grandi piattaforme (a cominciare da Facebook) decidono al posto nostro quel che dobbiamo leggere o meno. È il mitico algoritmo a dettare legge. Come in un castello kafkiano “decide” quali notizie debbano avere maggiore visibilità, stabilendo di volta in volta i nuovi parametri per definire la rilevanza dei nostri contenuti. Sui quali mister Zuckerberg fa comunque profitto.

Dagli inizi del web (quando – dopo gli esordi in ambito militare – cominciò ad essere utilizzato per scambiarsi informazioni più velocemente in settori universitari e di ricerca) a oggi sembrano essere trascorse ere geologiche.

Perciò abbiamo chiesto a un esperto come Sergio Bellucci di ripercorrere i grandissimi cambiamenti che ci sono stati e di illuminarci sugli scenari che si aprono legati all’intelligenza artificiale. Orizzonti interessantissimi che ci mostrano come l’innovazione e la tecnologia possano potenziare le nostre possibilità di espressione, di movimento, di realizzazione umana. Ma al tempo stesso preoccupanti, se pensiamo agli usi che ne possono fare la criminalità, governi autoritari e piattaforme private che, in nome del profitto a tutti i costi, vorrebbero ridurci a meri consumatori.

Scenari nuovi si aprono anche sul versante forense come ci spiega l’avvocato Ernesto Belisario parlando di frodi, manipolazione delle notizie, violazione della reputazione e, indirettamente, di cyberbullismo.

Pensiamo, per esempio, a quali e quanti danni possa fare la circolazione di falsi video (qui entriamo nell’universo del deep fake) che mostrino una persona mentre dice o fa cose che non ha mai detto e fatto. Pensiamo a cosa potrebbe significare tutto questo nell’ambito di processi.

Beninteso non è la tecnica il problema, ma l’uso che ne viene fatto.

Questo riguarda anche temi di cui si parla molto oggi, ovvero, la profilazione e l’uso dei big data. Se già è abbastanza fastidioso essere “schedati” a tutto vantaggio di inserzioni di pubblicità ad hoc come già avviene online, tanto più preoccupante è pensare che questi dati possano essere utilizzati per controlli di regime. Un uso certo non rassicurante è quello che ne fa già il governo cinese che assegna ai cittadini patenti a punti in base ai loro comportamenti.

La grande questione che si pone oggi è chi e come controlla le piattaforme. A ben vedere perlopiù sono aziende che aspirano ad essere monopoliste. La maggior parte, le più potenti oggi, sono di proprietà nordamericana o cinese.

Il nuovo imperialismo passa da lì, dal capitalismo delle piattaforme. Ce lo racconta bene il sociologo bielorusso Evgenij Morozov, autore di saggi come Silicon Valley, i signori del silicio e L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (pubblicati in Italia da Codice edizioni).

Con sguardo lungo, già un paio di anni fa il leader del Labour party Jeremy Corbyn aveva tematizzato la questione della proprietà delle piattaforme, proponendo l’idea di crearne una pubblica, in grado di diffondere contenuti di qualità, eliminando fake news, hate speech e troll. Qualcuno irrise la proposta dandogli del vecchio socialista utopista.

Noi pensiamo invece che la sinistra non possa esimersi da un’analisi approfondita di questi fenomeni e dall’avanzare proposte progressiste che incoraggino l’innovazione, lottando contro le disuguaglianze, anche in ambito epistemologico. Occorre studiare, avere una visione chiara delle gigantesche trasformazioni in atto, servono nuove strategie per garantire la democrazia, il diritto alla conoscenza e l’accesso alle nuove tecniche da parte di tutti, mettendo a punto – perché no? – strumenti di controllo pubblico sulle piattaforme e sull’uso delle tecnologie più avanzate.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 25 ottobre

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