Tutto ciò che è digitale, oggi, riempie la costruzione dell’immaginario sociale con le proprie parole di rivoluzione. Ogni lancio di nuovi prodotti è associato a questa nuova frontiera e la stessa società è immessa dentro questa aspettativa permanente del nuovo che sta avanzando

Circa trent’anni anni or sono c’è stato il momento in cui i bit dei computer (all’epoca pochissimi e ingombrantissimi) furono connessi in primordiali gangli informatici. Erano i primi vagiti di una rete che andava a costituirsi e che, in pochi anni, avrebbe sovrapposto la sua presenza a quella del reale composto da atomi. Quella struttura si andava creando con uno sviluppo esponenziale, fornendo territori nuovi, aggiuntivi, disintermediati, aperti a tutte le forme di relazione che le persone erano in grado di individuare come possibili. Sembrò, per un attimo, di poter rompere le catene delle forme che costituivano il potere nel mondo degli atomi, per donare all’umanità la possibilità di descrivere e concretizzare nuove forme di relazione e di potere.

Quello che fu chiamato allora “il settimo continente” sembrava promettere gradi di libertà più alti, sia in termini di produzione e di consumo, sia in termini di modelli di partecipazione, sia in termini di uguaglianza, di autorevolezza, di cooperazione, di connessione. Una diversa forma di relazione tra il sé e l’altro da sé si dischiudeva e gli orizzonti sembrarono esplodere in avanti lasciando aperti territori inesplorati del fare, del conoscere, del relazionarsi. Era una rottura che sotto mille aspetti alludeva all’emersione di un possibile nuovo mondo ancora tutto da plasmare.

Le persone che credettero a tale possibilità furono tacciate di tecno-ottimismo sia da quegli schieramenti di potere che avevano tutto da perdere, assetti sociali ed economici che preesistevano a quel continente inaspettato che emergeva, sia dai gruppi dirigenti delle associazioni sociali e politiche delle classi sociali subalterne che, con mille difficoltà nei decenni precedenti, avevano strappato qualche certezza sociale, qualche diritto e un certo livello di consumo per le masse dei lavoratori dipendenti. Gli stessi establishment culturali, inoltre, negavano la qualità nuova di ciò che stava accadendo sotto i loro piedi, spesso rivendicando la loro ignoranza sul nuovo che avanzava, con un rifiuto esplicitato tanto categorico quanto inconcludente. Il nuovo metteva in discussione non solo le loro teorie sociali, culturali, politiche, e la stessa configurazione dell’umano e della sua società, ma soprattutto le loro leadership individuali raggiunte in quella società.

I rappresentanti dei vecchi poteri non riuscivano a vedere il nuovo che si stava imponendo ma i tecno-ottimisti si illusero che…

L’articolo di Sergio Bellucci prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 2019

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