Come rispondere ai bisogni di chi cerca un tetto, senza intaccare ulteriormente le risorse naturali e territoriali? I movimenti per il diritto all’abitare e quelli ambientalisti hanno già molte risposte

La gentrificazione, la vivibilità delle città, i trasporti, la connessione centro-periferia sono parole risuonate spesso a Castel dell’Ovo, a Napoli, alla seconda assemblea nazionale dei Friday for future, «un movimento finalmente non più generazionale – spiega Francesca Acquaviva, 24 anni, studentessa di Biotecnologie a Bari -, lucido rispetto alla connessione di quei temi con la crisi ambientale. Per noi giustizia climatica è giustizia sociale». FFF ha lanciato il proprio manifesto politico in cui quella connessione comincia a intravedersi: «Miliardi di persone in tutto il mondo vivono in condizioni precarie, in aree ad alto rischio, su pendii, lungo gli argini di fiumi o sulle coste, nel settore informale, costretti a resistere e a organizzarsi autonomamente o a migrare. Gli sfratti forzosi minacciano tra 50 e i 70 milioni di persone in tutto il mondo» è l’allarme del Tribunale internazionale sugli sfratti (attivato dall’Alleanza internazionale degli abitanti) in vista della sessione sui cambiamenti climatici che si terrà nel quadro del Forum parallelo alla Cop25 (a Santiago del Cile, 2 e 10 dicembre 2019). Due anni fa, questa coalizione di movimenti di inquilini e senzacasa aveva tenuto una sessione specifica sulle crescenti violazioni dei diritti umani dovute all’eccesso di turismo, «una crescente causa di sfratti forzosi perché sta trasformando città e territori in merci e i loro abitanti in comparse».

Ma come si declina il diritto all’abitare al tempo di Greta? Ossia, come rispondere ai bisogni sociali senza intaccare ulteriormente le risorse naturali e territoriali? «L’ambientalismo senza occupazioni abitative è giardinaggio», dice a Left, parafrasando Chico Mendes, Cristiano Armati, militante e storico romano del movimento per la casa: «Abbiamo sempre partecipato alle battaglie ecologiste. Anche la marcia, in primavera, contro le grandi opere e l’inquinamento vedeva il movimento come spina dorsale di quel corteo. Nei fatti un’occupazione abitativa impedisce il consumo di suolo. E anche il concetto di autorecupero è un’invenzione del movimento a Roma e indica un modello diverso di città. Per inquinare di meno comunque bisogna organizzarsi, senza comunità non c’è organizzazione ed è impossibile un progetto diverso. E le occupazioni sono tra le pochissime comunità organizzate». Da tempo, le lotte per la casa hanno deciso di chiamarsi “movimento per il diritto all’abitare”, «un’evoluzione semantica – precisa Armati – che parte dalla fine degli anni 90 e che corrisponde a una consapevolezza esplicita, una trasformazione sollecitata da tanti fattori: dalle battaglie per la libertà di movimento a quelli contro le grandi opere inutili, contro le centrali nucleari e le basi militari. Uno degli slogan storici era quello contro l’energia dei padroni». «Nelle case occupate la coscienza politica e la scarsità fanno aguzzare l’ingegno, allora ci si inventa…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dall’1 novembre

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