Il mutamento del lavoro nella società globale impone nuove sfide e problemi, la disoccupazione tecnologica è uno di questi. Disoccupazione di massa, precarizzazione, lavori a chiamata (che rendono impossibile ogni progetto di vita) sono alcuni dei molti problemi sul tavolo dei governi di diverso colore. Ma nella storia umana, ovviamente, il lavoro è stato visto e vissuto in modi molto diversi fra loro e di questo da sempre si occupano oltre ai politici anche storici, sociologi, politologi e filosofi. Se nell’antichità l’otium letterario era l’aspirazione del cittadino sulla pelle degli schiavi e delle donne, nel medioevo cattolico il lavoro era castigo divino, condanna biblica. Sono stati i protestanti poi a creare l’etica del lavoro e del razionalismo ascetico a tutto vantaggio del capitalismo. Se per molti secoli il lavoro è stato per i più una necessità per la soddisfazione dei bisogni oggi potrebbe essere mezzo per una realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Paradossalmente però proprio ora che la rivoluzione tecnologica ci potrebbe permettere di affrancarci dai lavori di fatica il turbo capitalismo produce disoccupazione e nuovi schiavi. Abbiamo chiesto al filosofo Remo Bodei di ripercorrere con noi alcune tappe di questa storia millenaria del lavoro per arrivare ai problemi che si aprono oggi.
Professor Bodei, come era considerato il lavoro nella Grecia antica, dove a lavorare erano soprattutto schiavi e meteci?
Non bisogna pensare che i cittadini liberi non lavorassero, che stessero sempre in assemblea con la pelle del leone politico. Ciò che era condannato era il lavoro alle dipendenze di qualcun altro.
Gli schiavi non erano visti come pienamente umani, a differenza del cittadino greco libero e maschio?
Accadeva loro ciò che è successo anche alle donne. Non si dava il diritto di voto alle donne perché si pensava che dovessero essere i mariti, padri, i fidanzati a guidarne le scelte. Nel mondo antico si procuravano gli schiavi con le guerre. C’è un grande mito fondativo di tutta la società occidentale basato in realtà sulla necessità economica. La parola «servus», per esempio viene da servare, avere salva la vita, più che da servire. Invece di essere uccisi in quanto nemici si aveva salva la vita in cambio del lavoro coatto. Nell’antichità gli schiavi venivano considerati come individui a cui manca la pienezza del Logos, si negava la loro capacità di guidarsi da soli, la loro capacità di decidere. Hanno bisogno di qualcuno che li comanda, di una mente di cui loro siano il braccio, dicevano i Greci antichi.
Una negazione dell’identità umana degli schiavi che è durata millenni?
Per un lunghissimo periodo la schiavitù non è stata messa in discussione da nessuno. Persino gli schiavi che diventavano liberti volevano avere schiavi. Il Cristianesimo considerava gli uomini uguali davanti a Dio ma non su questa terra. Tutto cambia quando la schiavitù diventa meno conveniente, quando per la prima volta le macchine non era più solo delle specie di giocattoli che creavano meraviglia, perché non si capiva come una semplice leva riuscisse a sollevare grandi pesi con piccolo sforzo. Tutte le macchine antiche erano macchine pneumatiche ad aria calda, ma l’unica che serviva a qualcosa era quella inventata da Ctesibio, un ingegnere meccanico di Alessandria d’Egitto del III sec. che aveva il padre barbiere e inventò le sedie che si alzano e si abbassano come quelle de Il grande dittatore di Chaplin. Poi un’invenzione importante è stato il molino ad acqua romano nel I sec d.C. Le macchine erano considerate un’astuzia, un inganno alla natura. Le arti meccaniche erano considerate degne di operai manuali ed erano ben distinte da quelle liberali considerate arti nobili.
Una svolta ci fu con la cosiddetta civiltà delle macchine?
Un punto di svolta ci fu quando Galileo dimostrò matematicamente che non c’era nessuna astuzia, che l’uomo non gioca tiri mancini alla natura, non è come un astuto Odisseo che uccide la natura stupida e grossa, come Polifemo. L’unica astuzia che c’è nelle macchine è quella economica, la forza del vento, costa meno della forza degli animali e dell’uomo. Così nasce la civiltà delle macchine. Con la rivoluzione industriale per la prima volta si vede che la schiavitù non è conveniente. Si avviò in questo modo un grande processo per cui dallo schiavo antico si passò marxianamente allo schiavo salariato delle grandi fabbriche. Per cui gli schiavisti nel Sud degli Stati Uniti ebbero buon gioco a dire: in fondo allo schiavo diamo vitto e alloggio e il suo lavoro è sicuro, mentre in fabbrica non vedono la luce del sole, c’è un clima pessimo, acidi, rumore ecc. Inoltre possono essere licenziati, tanto il padrone della fabbrica troverà sempre chi li sostituisce.
Discorsi che sentiamo fare ancora oggi, purtroppo. E qui veniamo al tema della sua lectio per Con-vivere, quest’anno dedicato a tema del lavoro: il passaggio dal modello taylorista all’intelligenza artificiale.
C’è un punto da considerare: le macchine ausiliatrici, quelle della catena di montaggio taylorista, impegnano solo il corpo mentre la mente è libera di vagare. Non così le macchine calcolatrici su cui riflette già Leibniz. Per la prima volta permettono all’uomo di sottrarsi a quegli automatismi che le macchine possono espletare lasciando libero il pensiero creativo. L’invenzione del primo computer, lo sviluppo delle macchine di Touring, sono passaggi chiave. Con la cosiddetta intelligenza artificiale noi abbiamo questo miracolo, in apparenza: per la prima volta il Logos, la decisione non abita in corpi viventi ma è trasferita nell’inorganico, nelle macchine, nei robot in tutti i dispositivi di intelligenza artificiale. E questo provoca grandi cambiamenti che hanno ripercussioni enormi. C’è chi dice – ma l’ipotesi è dubbia – che le macchine possano diventare talmente intelligenti da poter a un certo punto emanciparsi dall’intelligenza umana. Quel che vediamo oggi sono i risvolti che riguardano il lavoro.
Come affrontare la disoccupazione tecnologica?
La disoccupazione tecnologica è un problema che c’è da due secoli ma che oggi è molto più ampio. La difficoltà è anche tenere il passo con le macchine. Certamente per quanto riguarda il calcolo sono più efficienti di noi.
Già Marx parlava di tempo liberato. Le macchine potrebbero liberare dalla fatica e in questo modo indirettamente favorire così la piena realizzazione umana?
Non c’è dubbio. Altrimenti si cade nel vittimismo e si prospetta questa gigantomachia, macchina – uomo, come due entità contrapposte che chiedono soluzioni unilaterali. In realtà le macchine sono un grande vantaggio. Ma va detto anche che si calcola che il 40 per cento della produzione umana sarà frutto di robot di ultima generazione, si parla di robotica cloud, capace di collegarsi momento per momento all’archivio di dati.
Lei insegna all’Università della California, qual è l’ultima frontiera della robotica oltreoceano e quale impatto ha sul mercato del lavoro?
A San Francisco alcuni robot non vengono messi in produzione perché sarebbero un disastro dal punto di vista sindacale e umano. Ci sono robot capaci di fare 400 panini con hamburger all’ora. È facile immaginare che impatto abbiano sul lavoro nelle catene di fast food: disoccupazione di massa. A Las Vegas ci sono automi che preparano cocktail al posto dei barman. Nella contea delle arance in California stanno per essere messi in commercio raccoglitori velocissimi che lasceranno senza lavoro i poveri messicani. In prospettiva il numero dei posti di lavoro potrebbe riequilibrarsi, ma il problema è anche quanto tempo ci metteremo ad adeguarci e che tipo di formazione serve. Le macchine hanno un deep learning o un machine learning che le rende molto veloci dal punto di vista produttivo. Ciò che ci salva sono la nostra unicità e imperfezione. Non ci possono copiare completamente. Un calciatore che tira in porta un pallone è inimitabile per intuizione, velocità della palla, eleganza del tiro, l’angolazione ecc. Non è vero che il nostro cervello sia l’hardware e il pensiero sia il software.
Quanto alla disoccupazione tecnologica?
Si calcola che 820 mestieri saranno cancellati. Alcuni studiosi di Oxford sostengono che il 47 per cento dei lavori spariranno. In Paesi tecnologicamente avanzati anche dal punto di vista della robotica come la Germania la disoccupazione è al 4 per cento. Questa innovazione tecnologica colpirà soprattutto i Paesi più arretrati che potrebbero soffrire di danni irreversibili. Lo scenario rischia di essere un mondo spaccato in due come nel romanzo di Huxley.
Come evitare che le persone più anziane, gli adulti analogici siano esclusi da questa rivoluzione tecnologica per mancanza di know how?
Questo è il problema più importante. Provo a dirlo con una battuta: dovremo curare la formazione continua, fare come l’esercito svizzero: c’è un periodo di ferma ed è quello degli studi che ciascuno fa, poi ci dovrebbe essere un richiamo continuo, non solo per i singoli mestieri, ma per la conoscenza generale, altrimenti saremo una società di idioti nel senso greco della parola, di gente che capisce solo il suo mondo piccolo, il suo mestiere.
È una questione politica, dunque?
Non si può ignorare, per esempio, che gli algoritmi segreti di Facebook e altri social possono essere usati dai militari, dall’industria, ecc. (il caso di Cambridge analytica insegna). Assistiamo al ritorno dei poteri occulti, c’è un lavaggio (soft) del cervello. Facebook, Google, sembrano gratis in realtà li paghiamo alimentando le loro banche di dati. I Big data sono fattori che ormai condizionano. Una serie di nodi vanno sciolti. Ma ripeto, al centro c’è l’educazione del cittadino. Nella catena di montaggio l’operaio compie movimenti standardizzati, ma il sapere riguardo a ciò che fa ce l’hanno solo ai vertici amministrativi della fabbrica. Bruno Trentin diceva che il problema era ricongiungere il lavoro alla conoscenza. Nuovi tipi di lavoro catturano l’intelligenza, non solo il corpo delle persone, solo che questa intelligenza è spesso catturata dal general intellect che è quello del capitalismo algoritmico, come vien chiamato. E dei rischi ci sono. Faccio un esempio: le auto senza pilota sono un sistema innocuo, ma i sistemi missilistici che sparano senza che ci sia un immediato controllo umano. Oppure pensiamo gli algoritmi finanziari di Wall street che avendo un linguaggio segreto sfuggono alla democrazia conosciuta che vive di linguaggi naturali e confronti fra persone.
La democrazia rappresentativa attraversa un momento di crisi ma sovranismo e nazionalismo sono gli strumenti per affrontare le sfide di cui stiamo parlando?
Stiamo assistendo ad un ritorno agli anni Trenta: nazionalismo e protezionismo economico. È una involuzione. Certo, tanti si sono fatti della globalizzazione un’idea tout court emancipatoria. Ma i processi globali non possono essere affrontati con referendum: globalizzazione sì, globalizzazione no. Bisogna cercare di capire leggendo il quadro mondiale. Non con l’ottica sovranista ristretta. Quanto al ministro Salvini, che si mette con Orban chiedendo la solidarietà in certo modo dell’Europa, mi sembra faccia un atto del tutto contraddittorio. Non sarà certo Orban o il gruppo di Visegrad ad accettare la redistribuzione dei migranti.
Servono anticorpi?
Il problema grosso è il mantenimento dei nostri valori di uguaglianza, libertà ecc. Come dice la sociologa Saskia Sassen i super ricchi si sono tirati fuori dagli eventi dell’umanità e hanno creato un loro Aventino escludendo il resto dell’umanità. Ogni elemento di contrasto alla povertà è stato abbandonato. Il darwinismo sociale è diventato darwinismo mondiale: si arrangi chi può. Come in certi posti in Brasile dove le case dei ricchi hanno il filo spinato, poliziotti, guardie armate. Si va verso un neo feudalesimo. Chi può si arrocca, gli altri rischiano di diventare clienti o servi della gleba. Non è che non esistano anticorpi, serve una sinistra che abbia la capacità di reagire, non semplicemente ricordando il passato, ma con una nuova visione, lavorando per cambiare la percezione distorta che la gente ha della migrazione.