L’annuncio di ArcelorMittal di voler rescindere l’accordo per l’acciaieria di Taranto è una «bomba sociale». Ma è solo l’ultima di centinaia di emergenze. Allo Sviluppo economico sono aperti 160 tavoli di crisi con 250mila lavoratori coinvolti. E nell’assenza di una politica industriale le multinazionali se ne vanno

ArcelorMittal annuncia di andarsene dall’ex Ilva proprio mentre andiamo in stampa. Una mossa che viene subito definita «una bomba sociale» e che complica un autunno già incredibilmente difficile per la tenuta di salari, contratti e posti di lavoro.

Spiega Sergio Bellavita di Usb che il colosso indiano potrebbe volere «un nuovo scudo penale, la disdetta degli impegni occupazionali, ottenere un’ulteriore, scandalosa proroga dei termini di adeguamento alle prescrizioni e uno sconto sostanzioso sul canone di affitto. La seconda ipotesi è che effettivamente abbia deciso di revocare l’investimento in Italia. In questo caso comunque la multinazionale avrebbe tratto un grande profitto dall’aver impedito che il gruppo siderurgico andasse a un’impresa con reali volontà industriali».

Per il 91% dei lavoratori di Taranto, che hanno risposto a un questionario di Usb, è il governo che avrebbe dovuto annullare il contratto con ArcelorMittal. Per 1211 lavoratori (96,6% dei 1524 questionari) non è giusto «garantire ad ArcelorMittal o ad altri lo scudo o l’immunità penale». E solo 17 di loro, ad un anno dall’ingresso del colosso, ritiengono che lo stabilimento sia migliorato dal punto di vista della sicurezza degli impianti e dell’ambiente.

Il 97,6% denuncia l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone perché non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente. Invece, nella debolezza della politica, si ripropone con violenza il conflitto tra lavoro e ambiente, una delle peggiori varianti della guerra tra poveri.
Un’altra variante di quella guerra è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola da venerdì 8 novembre

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