Al MedFilm festival di Roma si parla di scambio tra Europa e Mediterraneo. Un “corridoio umanistico” che guarda all'altro e diventa impegno sociale.

«La cultura del Mediterraneo guarda all’Europa, l’Europa guarda alla cultura del Mediterraneo», è il senso del 25esimo MedFilm, festival internazionale che si tiene fino al 21 novembre a Roma presso il Cinema Savoy, il Macro Asilo, il Nuovo Cinema Aquila e lo Spazio Apollo Undici.

Al centro del MedFilm festival ci sono la tutela dei diritti umani e il dialogo interculturale.
Ne abbiamo parlato con la presidente e fondatrice del festival, Ginella Vocca.

– Qual è il filo conduttore tra le opere presentate al festival?
Il filo conduttore consiste nell’andare a cercare nel contemporaneo, attraverso la cultura del bello,  il giusto, il reciproco, l’equo, il diverso, l’accolto. Questa edizione ha il focus su quattro Paesi: Tunisia, Libano, Spagna e Slovenia, quasi a immaginare un enorme spazio racchiuso tra questi quattro punti. Quest’anno inoltre c’è un “programma nel programma”, quello del Walk with women. Il 25° anniversario del festival coincide infatti con il 40° anniversario della Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne. Sarà conferito il Premio Amnesty International per i diritti umani sul tema della prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne. Parallelamente si tiene la mostra fotografica WWW: Walk With Women presso il mercato rionale di Piazza Alessandria per tutta la durata del MedFilm. Già l’anno scorso avevamo dedicato il festival alle donne, non solo al tema delle donne violate ma anche alla loro forza creativa e produttiva.

– Parli di “corridoi umanistici”. Da una parte quindi l’idea di un corridoio, qualcosa che unisca e metta in contatto, dall’altra l’umanistico, l’arte, il bello. Come il cinema, l’arte, il bello possono cambiare o aprire la nostra visione sul contemporaneo, che potere ha il cinema?
La forza dirompente delle immagini sapientemente messe in sequenza è uno strumento potentissimo di messa in relazione con le culture degli altri, è un linguaggio diretto e non mediato, una finestra potentemente aperta sul mondo. Solo se vedi capisci di più quello che ti circonda, quello che succede intorno.

– Il tema dello sguardo tra Europa e Mediterraneo è il simbolo del vostro manifesto. In 25 anni di festival questo sguardo è cambiato? L’Europa guarda al Mediterraneo con indifferenza?

Quest’anno abbiamo realizzato una raccolta curata da Roberto Silvestri di due blocchi da 13 film recuperati dal nostro archivio e che verranno proiettati all’Apollo 11 dal 20 novembre. Sono opere che possono raccontare il mutamento a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. Da parte mia risento assolutamente di questo cambiamento e di questa indifferenza, sia come organizzatore del festival ma anche come cittadina. Penso a Liliana Segre che ha urlato il tema dell’indifferenza che ci impoverisce e nel corso di questi 25 anni mi rendo conto che l’attenzione al proprio sé e alle nostre sole necessità ci ha resi ciechi. E c’è poi la cecità delle istituzioni culturali che non interpretano più la realtà. Se il cittadino comune è indifferente all’ennesimo naufragio, all’ennesima morte sul fondo del mare è perché le istituzioni culturali hanno smesso di essere un avamposto della nostra umanità. Non lo sono.
Nell’illustrazione simbolo del festival, di Marino Amodio e Vincenzo Del Vecchio, c’è l’idea e l’auspicio di uno sguardo che vuole incrociare le migliori volontà dei paesi europei, affinché vivano il Mediterraneo come il loro mare, allo stesso modo di tutti quei paesi che si bagnano nello stesso mare, perché ognuno possa dire: questo è “il mare nostrum”.

– Il cinema, l’arte, il bello possono quindi essere impegno sociale?
Sì, il nostro è un festival militante e militiamo affinché i giovani possano prendere coscienza, lavoriamo moltissimo nelle scuole o negli istituti di pena e siamo qui ogni anno, con grande forza e resilienza, a mostrare la bellezza delle diversità e delle culture molteplici. L’augurio è di poter ricostruire un’egemonia culturale non fatta di slogan ma di lavoro sul campo, del parlare con le persone, nelle scuole, senza avere paura della diversità.

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