Galosce, cosciali, stivali waders, persino goldoni, parole che non fanno parte del vocabolario comune ai cittadini italiani, ma di quello dei veneziani sì. La minaccia delle maree è sempre stata parte della storia di questa città, e nel corso dei secoli si può dire che abbia contribuito a plasmare la forma mentis degli abitanti, inclini a rialzarsi di fronte ad ogni tragedia o calamità naturale. Di per sé la capacità che la città ha di far fronte da sola alla spinta inesorabile delle acque è qualcosa di innegabilmente poetico, la fa sembrare una guerriera imperturbabile, che sfida a mani nude qualcosa di molto più grande di lei, ma come per un’eroina tragica il finale più scontato è quello di soccombere.
La sua capacità di resistenza varia di molto a seconda del livello che le acque raggiungono su quello di medio-mare, se è vero che le acque fino ai +80 cm non sono così rare, sono quelle sopra i 110 cm ad essere disastrose. Raggiunto quel livello anche le paratie che servono per camminare in giro per le calli e le vie dell’isola vengono tolte, in quanto inutilizzabili. Il disastro è una questione di trenta centimetri. È in quei trenta centimetri che cambia tutto. Se passa quelli, l’acqua supera le paratie di negozi, entra in alberghi, bar e abitazioni situate al pianterreno, provoca disastri. Il sale non perdona niente, non è come un’allagamento d’acqua dolce; penetra nelle cose, si deposita all’evaporazione dell’acqua, rompe i motori delle pompe, fa saltare i mosaici, quel che tocca distrugge.
La gravità del problema è nota già dal secolo scorso, dopo la tragedia del 1966, la più grande piena storicamente verificata. Anche in quel caso, il problema non era solamente locale, ma riguardava l’intera penisola italiana. In quel terribile novembre andarono sott’acqua anche le campagne del Nordest con la tristemente celebre alluvione del Piave, ed è difficile togliersi dalla memoria le foto d’archivio del centro di Firenze sommerso da un Arno straripante. L’acqua a Venezia il 4 novembre 1966 toccò quota +194cm, fu un disastro. Alla piena di ieri mancavano solo 7 cm.
Nel 1973, sulla scia di quella catastrofe, venne varata la Legge speciale per Venezia. La n° 171 “Interventi per la salvaguardia di Venezia” che tentava di affrontare in maniera organica le diverse problematiche legate alla salvaguardia della città lagunare ponendole come obiettivo di interesse nazionale.
L’idea del sistema Mose nasce anche da lì. “Modulo sperimentale elettromeccanico”, ovvero un sistema di 78 paratoie mobili divise in quattro schiere, poste alle bocche di accesso alla laguna di Venezia, composte da strutture scatolari metalliche cave al loro interno, agganciate a dei cassoni di alloggiamento posti sul fondo del mare tramite cerniere che ne consentono il movimento: quando non in uso giacciono sul fondale piene d’acqua, altrimenti questa viene fatta uscire tramite pompe ad aria compressa. L’idea è quella di proteggere la città e la laguna da piene eccezionali, senza creare una barriera fissa, che danneggerebbe in maniera irreparabile l’intero ecosistema lagunare in modo da preservare Venezia, Chioggia e le altre isole lagunari, oltre che il patrimonio storico, artistico e ambientale.
Un elemento già funzionante, pur parte di un’opera molto più grande, c’è. Nel suo piccolo, il Baby Mose ripara il centro di Chioggia, isolando il canale principale del centro storico, il Vena, dalla laguna in caso di acqua alta. La struttura entra in funzione a +90cm di acqua sul medio mare e ha capacità di azione fino ai +130cm, oltre quel limite non ha più effetto perché il testimone dovrebbe passare al fratello maggiore, il MoSE vero e proprio, che però, a distanza di decenni non è ancora stato attivato.
Se da una parte in queste ore c’è un grande richiamo trasversale all’unità nazionale, esiste anche un detto e non detto, uno scaricabarile di responsabilità che si sente mormorare tra comune, regione e Stato. Se ora l’intero Consorzio Venezia Nuova (concessionario del ministero delle Infrastrutture per la realizzazione del Mose, ndr) è commissariato, e la sua gestione è di conseguenza statale, tanto che lo stesso comune, a detta del sindaco Luigi Brugnaro si sentirebbe quasi “escluso” dalla vicenda, verrebbe sommessamente da segnalare che se si è arrivati a tanto è perché sia a livello comunale (giunta Orsoni, ex sindaco accusato di finanziamento illecito e poi prosciolto causa prescrizione) sia a livello regionale (ex governatore Giancarlo Galan, che patteggiando riesce ad ottenere uno sconto di pena considerevole per le accuse di corruzione, assieme alla confisca di beni per il valore di circa 2,6 milioni di euro). A destra e a sinistra, nel corso degli anni il Mose, presentato come un’opera strategica per la salvaguardia dell’interesse pubblico, è diventato una mangiatoia per politica e impresa. L’intera vicenda ha l’odore acre e marcio di decenni di sprechi, agitazioni, polemiche, rinvii, manette, dimissioni, commissariamenti.
I ritardi legati alle maxi-inchieste per corruzione e agli arresti che ne sono seguiti hanno allungato ancora di più il termine ultimo di consegna dei lavori, che ora sembra slittato in avanti anche se i pareri rimangono discordanti sul quando. Alcune dichiarazioni parlano di 2020, c’è chi dice che è fantascienza, chi più realisticamente azzarda un 2021 o un 2023. Il tutto per un’opera la cui costruzione è iniziata nel 2003, e che, alle stime attuali, risulta costata complessivamente tra i 5 e i 7 miliardi di euro.
E qui uno dice, almeno funzionasse, invece il problema sta anche nella parte già completata finora del progetto. Il 4 novembre scorso, data simbolica della tragedia del 1966, la barriera della bocca di porto di Malamocco avrebbe dovuto essere sollevata in prova. La cerimonia è stata annullata a pochi giorni dall’evento. Il 21 e 24 ottobre gli operatori riscontrano delle vibrazioni anomale in alcuni tratti delle tubazioni di scarico. Nella bocca di porto del Lido al primo test di sollevamento nel 2016 le paratoie non sono più riuscite a rientrare nei loro alloggiamenti. Troppi sedimenti accumulati alla base delle barriere. Ad agosto le paratoie di Chioggia sono state sollevate senza problemi ma alcuni deputati del Movimento 5 Stelle delle commissioni Ambiente e Lavori pubblici hanno denunciato l’assenza di un collaudo delle enormi cerniere. Imbarazzo generale.
Esiste una misura tutta italiana di arrivare quando la situazione è ormai tragica, le tragedie non sembrano bastarci mai. L’anno scorso, il 29 ottobre 2018, fu un altro disastro sfiorato, si parlò di “clemenza” perché il vento in senso contrario allo Scirocco aveva fermato la drastica avanzata delle acque a quota +156cm, questa volta la stessa clemenza non c’è stata. Dopo la risonanza iniziale, i problemi cadono rapidamente nel dimenticatoio, se ne va l’eco mediatico, cala l’interesse politico per la questione. Rimangono i problemi, poco discussi fino a che esplodono, è così per Ilva, e così per il Mose, è così per tante cose.
Al contrario di molte polemiche che asseriscono «ma di cosa ci stupiamo, San Marco va sempre sotto appena si alza un po’ l’acqua», rispondiamo sì, la Piazza, la Basilica in 1.200 anni sott’acqua c’è andata 6 volte, e il dato più inquietante è che 3 di queste sono tutte concentrate negli ultimi vent’anni. Il cambiamento climatico non è più uno scherzo non è più una bufala, come quando la maggioranza dell’opinione pubblica ridicolizzava apertamente Al Gore, che come un pazzo tentava di difendere le sue tesi nei primi anni 2000. Non è una “hoax”, una farsa, come sostiene di fatto il presidente americano Donald Trump. Questa mattina, mentre tutti – residenti, autorità, perfino turisti – si davano una mano l’un l’altro nel tentare di ripulire, salvare il salvabile, fare una prima, dolorosa, conta dei danni, un gruppo di giovani ragazzi del movimento Fridays for future in piazzetta San Marco ha esposto uno striscione: Tide is rising, and so are we (La marea si sta alzando, e noi pure).