Un film sul delicato rapporto di una figlia con la madre nel segno di una libertà di pensiero che supera le barriere ideologiche e religiose. La regista è stata premiata al festival DocuDonna di Massa Marittima

L’Italia si è arricchita di un terzo festival del Cinema dedicato alle donne regista, dopo Firenze e Milano. Si tratta di DocuDonna a Massa Marittima, organizzato da Cristina Berlini, regista anche lei, napoletana, che abita in Toscana da dodici anni dopo aver trascorso dieci anni ad Amsterdam. Dal cospicuo materiale ricevuto ha selezionato, con l’aiuto di Silvia Lelli, documentarista e antropologa dell’Università di Firenze, dieci opere rilevanti per tematiche sociali e antropologiche, proiettate in una tre giorni di fine ottobre.

Ha ottenuto il Premio DocuDonna 2019 per il Miglior documentario internazionale la regista arabo-israeliana Rana Abu-Fraiha, che ha presentato In her footsteps (2017, Israele).
Quando si accendono le luci in sala, dopo la proiezione, la giovane regista chiede che alzino la mano le mamme; poi che facciano lo stesso le figlie. Poi pone una domanda collettiva «Vi siete riconosciute?», iniziando un dialogo spontaneo e fresco, proprio come è lei. Ma il film, a tratti molto doloroso, riguarda ben più del rapporto madre-figlia.

Rana Abu-Fraiha ha iniziato a girarlo nel 2012, cinque anni dopo l’apparire del cancro che ha continuato a tormentare sua madre per altri cinque lunghi anni. Le riprese documentano l’avanzare della malattia e insieme del dolore fisico, senza mai scadere nel voyerismo, sorrette come sono dalla ricerca che lei ha scelto di fare, aiutata dal mezzo cinematografico, su questa donna eccezionale, il loro rapporto e il processo di separazione da lei. Con una ulteriore complicazione. Il desiderio della madre di essere seppellita nel cimitero di Omer, la città ebraica dove vive da quando si è sposata e dove ha allevato le figlie e il figlio, facendoli studiare alla scuola pubblica, non può essere esaudito, secondo gli impiegati del Comune.

Lo testimoniano nel film telefonate incrociate, a varie riprese, dove da ambo le parti c’è sempre un civile confronto. In una scena lei telefona ponendo il problema, in una successiva ascolta il diniego. Proseguendo nel film, ci apriamo alla speranza per le parole della seconda sorella, che pare aver ottenuto questo permesso. Ma poi la delusione: per una musulmana che ha scelto di vivere in una città ebraica non ci sono gli stessi diritti dei suoi concittadini. La invitano a fare domanda al paese natio del marito, il villaggio beduino di Tel Sheva (Israele), soluzione inaccettabile per lei che si è allontanata dalla società di provenienza , per sfuggire ad un’educazione che sottomette le donne alla legge del padre.

Una scelta che, ce lo dicono alcuni dialoghi nel documentario, il marito ha accettato per amore, mentre ha causato alle figlie di dover fronteggiare durante la loro crescita un problema identitario più grande di quello comune a tutti gli adolescenti.

Però i video girati dal padre, che mostrano la mamma con i bambini piccoli, sono teneri, a tratti spiritosi, e rivelano l’armonia e la serenità familiare in cui sono cresciuti. E insieme svelano da chi ha preso “il vizio” di filmare fin da piccola la regista. Il padre le rivela in una scena del film che, non avendo neppure una foto della sua infanzia, si è attrezzato per fornire ai suoi figli dei filmati girati durante la loro fanciullezza. Questi, inseriti come flashback, alleggeriscono il racconto e ci danno conferma della bontà di una scelta materna di separazione dal luogo nel quale si è trovata a nascere, di cui non condivideva il pensiero dominante. Vero è che il coraggio le è venuto anche dall’incontro con l’uomo di cui si innamora e che poi sposa. E infatti, alla domanda «Qual è il tuo sogno?», risponde a sua figlia «Che tu trovi il compagno giusto».

La volontà di sepoltura della madre non va scambiata per un problema religioso. È, al contrario, testimonianza del fatto che lei crede nell’uguaglianza fra diversi. Non è stato il luogo di nascita ad impedirle la scelta di integrarsi in una nazione considerata ostile dalla sua gente, non deve essere la religione ad impedirle di essere ricordata dove ha vissuto. Un semplice ma profondo messaggio di pace maturato nella quotidianità.

La regista che ci sta davanti in sala, dalle risposte ci rivela una libertà di pensiero e un coraggio che fanno onore alla scelta della madre, rendendone la morte ancor più drammatica.

Rana Abu-Fraiha è oggi una regista di successo. Oltre il premio ottenuto a Massa Marittima, ne ha collezionati molti altri per questo stesso film. Premio Van Leer per il miglior regista di documentario (2017) Premio miglior regista di documentario al Festival del cinema ebraico (2018), per citarne due. Ma anche la carriera delle sorelle non è da meno: la sorella piccola dirige un ristorante giapponese in Oriente, la seconda è stata accettata come medico di pronto soccorso in un’équipe israeliana. Donne realizzate, dunque, in contesti internazionali.
L’ultima scena, con un’immagine forte e melanconica ad un tempo, aggiunge un monito alla storia e svela l’origine del titolo: quando scompare una persona che è stata propulsiva per la vita di tutti i suoi cari, non rimane che continuare a camminare nel tracciato da lei creato. Uscirne porterebbe a perdersi.