Per realizzare strategie di protezione del patrimonio c’è bisogno di competenza. Non servono i caschi blu o i commissari ma esperti come architetti, storici dell’arte, restauratori, tecnici del Mibact. Peccato che questa rete sia stata dispersa

Ai primi di novembre ho accertato che in una platea di quaranta studenti universitari di secondo livello dei corsi di laurea in Storia dell’arte e Scienze dello spettacolo all’Università di Firenze nessuno sapeva di un’alluvione che esattamente un quarto di secolo prima aveva devastato il Piemonte. Ma tutti sono rimasti basiti nell’apprendere che tra il 5 e il 6 novembre 1994 l’esondazione del Po e del Tanaro provocò la perdita di settanta vite umane (quattordici nella sola Alessandria, coperta d’acqua per oltre il cinquanta per cento). Non li biasimo. Quasi nessuno di loro c’era, nel 1994, ma non è la sola attenuante della disinformazione.

Neanche nei giorni del venticinquennale quel disastro è stato oggetto di una riflessione, se non esaurita in un ambito prevalentemente locale. Fuori dal Piemonte se ne è parlato poco o nulla, benché quella catastrofe abbia parecchio da insegnarci. Tra le molte cose che non si ricordano sono i danni enormi riportati dal patrimonio artistico e monumentale, e risarciti con grande fatica e attenzione. Ma siccome l’arte di quelle terre stenta a entrare nel canone nazionale, neanche le tragedie che la riguardano trovano spazio in una forma di memoria tramandata, mentre l’allagamento di San Marco a Venezia fa (giustamente) il giro del mondo. L’ignoranza del patrimonio, che non sta tutto nelle cosiddette città d’arte, ci rende spaventosamente vulnerabili.

Ecco perché l’oblio dell’alluvione di Alessandria può rappresentare una chiave di lettura e di reazione a quel che sta succedendo in questi giorni (mentre scriviamo, mezza Italia è ancora sott’acqua), e che rilancia il tema cruciale della fragilità del patrimonio e della difesa del suolo. Cruciale e vitale, perché si tratta non di lasciare intatti paesaggi pittoreschi, ma di salvare vite. Ancora una volta il tema è affrontato prevalentemente – se non esclusivamente – in termini di emergenza, e non mai di progettazione degli interventi. Quelli da realizzare in tempi di pace. Parlo non a caso di difesa del suolo, perché se è clamoroso quanto accaduto a Venezia, l’acqua ha ferito il nostro territorio più storicizzato anche là dove non c’erano barriere subacquee da alzare: Matera è stata solcata da cascate di fango, e persino a Firenze e a Pisa è maturata apprensione per le piene dell’Arno. Da dove cominciare, dunque, per imbastire …

L’articolo di Fulvio Cervini prosegue su Left in edicola dal 22 novembre

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