Da momenti di protesta, essenziali e necessarie, a piazze propositive di cambiamento. Ma per questo c'è bisogno di riprendere ad essere sinistra vera, riscoprire le ragioni della propria esistenza, e quindi di riparlare di socialismo. L'opinione di Lionello Fittante

Diciamo le cose come stanno, semplici, chiare e limpide: la Sinistra in Italia non c’è, inutile girarci attorno. Sopravvivono simulacri di forze politiche, personalità diverse che si propongono, (talvolta qualcuna in cerca d’autore), ma complessivamente una rappresentanza politica vera e piena della sinistra non esiste.

Intendiamoci: nel Paese navigano sentimenti, passioni, aspirazioni, speranze, valori che si richiamano al mondo e alla tradizione della sinistra (ricordo le lenzuola anti-Salvini, le mobilitazioni pro-Lucano, quelle in difesa della Capitana, per ultime Le Sardine), ma niente che poi leghi con un filo rosso queste passioni e mobilitazioni ad un soggetto politico. Semplicemente perché la sinistra non c’è: nascono mille fiori per le strade, è vero, ma non è scontato siano rose che fioriranno, forse sono crisantemi.

C’è stato un tempo in cui le piazze si riempivano perché organizzate dai partiti, ora si riempiono solo se non organizzate dai partiti: qualcosa vorrà dire?

E non appaia un ragionamento nostalgico, tutt’altro, ma la sottolineatura della necessità di riflettere sullo stato delle cose, un invito a riflettere su sé stessi e sul mondo che si dovrebbe avere l’ambizione di rappresentare.

La stessa discussione attorno alla frammentazione della sinistra, primo e più grave problema, è talvolta mal posta: la frammentazione a sinistra c’è sempre stata. Basti ricordare che, negli anni 70, quelli delle grandi mobilitazioni di massa, in campo a vario titolo e con diversa consistenza, a sinistra potevamo contare il Pci, il Psi, il Psdi, il Pdup, il Psiup, Dp, per fermarci ai principali soggetti “parlamentari” e una miriade di formazioni extra-parlamentari.

Deve essere altro allora quello che determina l’assenza di un soggetto politico grande, rappresentativo e autorevole, e cioè l’abbandono e lo spreco di un patrimonio e di una ricchezza politica e culturale che non aveva eguali nel mondo occidentale, e che determinava un vitale e produttivo modo di essere nel corpo del Paese.

Per questo, a margine, non mi convince la narrazione sul superamento della forma partito – strumento per la trasformazione del mondo attraverso l’organizzazione di pensiero collettivo – in quanto semplicisticamente ritenuto superato, novecentesco: non si abbandona la ruota solo perché è stata inventata più di 5000 anni fa.

Ma tornando al ragionamento iniziale, quei partiti avevano un approccio differente all’interpretazione della società e un rapporto reale con il Paese.

Quelle forze politiche si confrontavano avendo ciascuno una visione di mondo, un’idea di mondo, di progetto, di prospettiva, che oggi è del tutto assente. Gli attuali soggetti politici non riescono ad uscire dai propri apparati e dai palazzi.

Esisteva un modo di stare nei conflitti, affrontarli, farsene carico, rappresentarli, farli vivere, crescere, ora del tutto abbandonato. Ad esempio, semplificando: il Pci aveva previsto il ’68? Aveva previsto il ’77? Mi pare di no, però ebbe la capacità di confrontarsi con quanto accadeva nel Paese, contaminarsi, dialogare, comprendere, rappresentare. Né rinchiudersi né inseguire: comprendere.

Infatti il ’68 non ridimensionò il Pci. Il ’77 neanche. Ricordiamo in quegli anni Bologna descritta in tante piazze come capitale della repressione? Il Pci non guardò con sufficienza, non si arroccò, non allontanò dall’alto della sua ‘grandezza’ masse di gente che erano portatori di idee nuove, errori anche, ma vivacità e speranze. Il sindaco di Bologna aprì la città: disse questa città è vostra, accolse e dialogò: arricchì Bologna e il partito.

E ricordiamo la Roma impaurita e chiusa degli anni di piombo? Petroselli e Nicolini aprirono Roma, inventarono l’Estate Romana, restituirono la città alla propria gente, ricostruirono un tessuto sociale.

La “vecchia” sinistra riusciva quindi ad essere “egemonica” nella società perché aveva la capacità di una visione (oltre ad avere interpreti francamente di livello superiore, per cultura, elaborazione, empatia), e in questo senso la frammentazione, pure esistente, era sì un problema (quante discussioni sulla ricomposizione della scissione di Livorno fra Pci e Psi), ma non tale da determinarne l’inconsistenza.

Oggi l’approccio, miope, verso le piazze che sempre più spesso spontaneamente si animano, si riduce nella rincorsa ad intestarsele, non a comprendere, a contaminarsi, a modellarsi raccogliendo le migliori energie, e quindi giustamente, quei movimenti non hanno nessun interesse a farsi mettere cappello, ma li spingono viceversa a sottolineare la loro distanza dai partiti.

Non è quindi questo un ragionamento nostalgico, ma l’invito a riflettere su quella che di fatto per la sinistra ha rappresentato l’abbandono di certe pratiche e certi modi di essere: una sconfitta culturale prima ancora che politica.

Quello che manca e di cui c’è bisogno è una visione generale di mondo, l’idea di un’altra società possibile. Chi può immaginare di rinascere e trovare forza, se la sinistra si limita a lanciare appelli, raccolta di firme, sit-in? Ma senza recuperare la necessità di una prospettiva, di un’idea di futuro da confrontare nelle piazze.

La destra vince perché offre un modello di società (che ovviamente contrastiamo), anche con parole semplici, ma facilmente comprensibili: indica un nemico (lo straniero, le istituzioni europee, le banche e i suoi ‘servi’), indica una soluzione (difesa dei confini, della famiglia, della sicurezza, dell’identità nazionale, della libertà nelle scelte economiche).

La sinistra, oltre al rifiuto di quella visione, cosa propone? La lotta alle bottigliette di plastica tanto per darsi una spruzzatina di verde, l’accoglienza umanitaria, la solidarietà sempre più di tipo caritatevole?

C’è bisogno allora di riprendere ad essere sinistra vera, riscoprire le ragioni della propria esistenza, e quindi di riparlare di socialismo, che sappia interpretare le nuove sensibilità, i nuovi rapporti di lavoro, i nuovi sfruttamenti, che sappia riproporre il contrasto ideologico, e materiale, cioè sulla pelle e nella carne viva delle persone, tra una società basata sullo sfruttamento, dell’uomo e delle risorse, e la necessità del suo superamento.

C’è bisogno di uno strumento che trasformi le piazze, anche di questi giorni (Le Sardine), da momenti di protesta, pure essenziali e necessarie, a piazze propositive di cambiamento.

In questo senso, ad esempio, bisognerebbe spiegare che anche l’ambientalismo e la salvezza del pianeta sono incompatibili con una società capitalista, condannata alla crescita continua e ininterrotta, per produrre profitto per i pochi e accentrare le ricchezze anziché distribuirle, e non un pur giusto invito a buone pratiche quotidiane.

Allora i piccoli soggetti politici esistenti, se davvero volessero rimettere in moto l’abbandonato rapporto con la società, dovrebbero prima di tutto recuperare il ruolo di elaborazione politica, di analisi e confronto vero, e perciò una volta per tutte uscire dai palazzi e dai propri arroccamenti e si accorgerebbero, in questo momento storico, che forse sarebbe utile anche spogliarsi delle proprie divise.

Esiste una massa enorme di persone che ormai non vota, una massa enorme di persone che ha pensato di affidare legittime aspirazioni al cambiamento ai 5S e che in misura sempre maggiore si sente ora se non tradita, disorientata, si prospettano scenari politici inediti, stravolgimenti nelle collocazioni politiche e sociali, la sinistra ha il dovere di parlare a quei mondi, non a Di Maio o Di Battista di turno, ma a quelle masse, comprenderle, essere dentro quei sconvolgimenti, quelle contraddizioni, provare a farle maturare, a governarle in qualche modo e anche a migliorare se stessa. Se non ne è capace non ha senso di esistere.

Questa necessità politica e culturale non può che passare inevitabilmente che attraverso lo scioglimento delle formazioni esistenti, che sopravvivono sempre più stancamente a sé stesse, lo scioglimento degli apparati di cui oggi solo vivono, senza condizioni, tranne quella di sedersi allo stesso tavolo per confrontare le idee, non i posizionamenti reciproci, e soprattutto per ascoltare, ragionare sui propri errori e rimettersi in collegamento con la gente.

È fisiologico che parole come “scioglimento” disturbino, provochino un naturale senso di orgoglio che fa scattare l’arroccamento e l’autodifesa. Usiamone altre allora, diciamo “contaminiamoci”, “intersechiamoci”, persino “abbracciamoci”. Facciamo di tante parole sparse un paragrafo, di tanti paragrafi una pagina, di tante pagine un libro, di tanti libri una libreria. Insomma immaginiamo qualcosa di più grande da costruire e offrire.

Ma come tristemente sappiamo il problema non è lessicale, ma essere disposti a rinunciare a rendite di posizione, a piccole convenienze da segreteria, a cerchi autocelebrativi. Non c’è altra strada, e non è facile.

Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti, componente Comitato nazionale èViva