Non si può punire un mafioso se non collabora con la giustizia. In particolare un detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti – se non collabora. È questo il principio stabilito dalla Corte costituzionale che con la sentenza n. 253 depositata oggi (relatore Nicolò Zanon) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’Ordinamento penitenziario là dove non contempla che, nelle condizioni indicate, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio. Prima della dichiarazione di incostituzionalità, si presumeva che la mancata collaborazione con la giustizia dopo la condanna per certi delitti dimostrasse in modo inequivocabile la persistenza di rapporti con la criminalità organizzata. Da oggi non sarà più così. E per quanto concerne la presunta pericolosità del detenuto – tema che ha scatenato forti critiche da parte di diversi magistrati, politici e nell’opinione pubblica – essa resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Quindi, non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione.
La presunzione di pericolosità – non più assoluta ma relativa – può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale. É fondamentale aggiungere – scrive la Corte in un comunicato – che tutti i benefici penitenziari, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
Da via Arenula fanno sapere che «i tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro per verificare, insieme al Parlamento, un’adeguata e tempestiva soluzione». Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha aggiunto: «Sono sicuro che le forze politiche saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza».
Si tratta «di una sentenza sicuramente che contiene principi importanti e spunti interessanti ma non possiamo definirla rivoluzionaria bensì cauta» osserva Davide Galliani, professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Milano, e autore, con altri, del libro Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale. «Un aspetto che mi lascia perplesso è quando leggo in sentenza che per ottenere i benefici non solo occorre che il legame con l’organizzazione criminale non ci sia nel presente ma è necessario che il ripristino del collegamento con la criminalità organizzata non avvenga in futuro. Occorrerà attendere la giurisprudenza».
«Si tratta di una sentenza che non rivoluziona il sistema dell’esecuzione penale per quanto riguarda i cosiddetti reati ostativi – spiega Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino – ma apre una piccola breccia nel muro di cinta del fine pena mai in Italia: la decisione si limita al solo beneficio del permesso premio però con argomentazioni contro la presunzione assoluta di pericolosità sociale».