Quella mattina che le camionette caricarono gli studenti per la prima volta e i poliziotti acciuffarono quelli che inciampavano nel filo di ferro delle aiuole della piazza, e si accanirono soprattutto sulle ragazze, una grande indignazione attraversò la città. Gli studenti stavano protestando solo con qualche cartello in mano contro una legge di allora, la “2314”, davanti al rettorato, quando la carica era arrivata, vigliacca, da più direzioni. Poche ore dopo quasi tutte le facoltà della città erano occupate. Assemblee affollatissime – già con la mente allo Smolny – discutevano animatamente il da farsi. Non lo sapevano ancora, ma era cominciato il ’68. Passarono i giorni e vi furono gli scontri alla stazione di Pisa, passarono le settimane e vi fu la battaglia di Valle Giulia. Gli studenti avevano perso l’innocenza, adesso attaccavano per primi, volavano le pietre e le prime bottiglie molotov, la polizia talvolta era messa in fuga.
Un senso d’onnipotenza cominciò a prendere i ragazzi e le ragazze. E venne il Maggio. La Rivoluzione era per l’anno seguente. La dialettica con i comunisti – colti di sorpresa e alla ricerca del controllo di un movimento che non comprendevano – divenne scontro violento: quando il segretario della federazione comunista con un pugno al ventre scaraventò giù dal palco il ragazzo che parlava su mandato dell’assemblea cittadina degli studenti, nella piazza piena che manifestava in sostegno delle lotte della Sorbona, la rottura divenne definitiva: il movimento la svuotò, quella piazza, e lasciò soli i “burocrati” e il loro servizio d’ordine, ma già da tempo un odio per un tradimento antico divideva i giovani dal partito. Perché prima della loro nascita avevano disarmato la “Resistenza”, perché prima della loro nascita avevano confermato il potere dei preti e dei padri e delle madri e dei maestri che soffocavano la loro vita, perché nelle tante pagine che avevano scritto i giovani non avevano trovato neanche un rigo che parlasse ai loro cuori appassionati. Perché si erano resi complici e autori di una morale privata opprimente e innaturale. Perché non erano diversi in fondo da quei padri, da quelle madri, da quei maestri e da quei preti.
«Osare pensare, osare ribellarsi, osare vincere» diceva la frase che avevano preso dalla rivoluzione culturale cinese. E il fiore rosso della rivolta, la loro stessa giovinezza, era quanto avevano di bello da spendere. Ma sapevano che sapersi ribellare non bastava: occorreva anche pensare, occorreva vincere. Occorreva vincere, e il difetto di teoria li portò a prendere a modello la più recente delle vittorie, prima della loro nascita: la lotta partigiana. E cominciarono a parlare di lotta armata e di insurrezione. O vittorie remote, asiatiche o latino-americane. E cominciarono a parlare di guerriglia nelle metropoli. Parlavano di armi, ma se glielo aveste chiesto non riuscivano a immaginarsi con un’arma in mano a ferire la carne viva d’un uomo. Non riuscirono ad avere un pensiero che commisurasse alla loro realtà concreta la prospettiva paziente della costruzione d’una vittoria reale: moderna e insieme umana. Sarebbe stato necessario un pensiero per portarli a una vittoria.
I giovani si guardavano intorno: si sentivano pieni di forza, ma non sapevano come usarla, quella forza; sapevano solo che «non si può fare la rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria». E allora giunsero i Maestri. Dissero che loro lo avevano, il pensiero, che loro avevano la teoria. Giunsero gli amici di Althusser e di Foucault, quelli che sapevano tutto di Spinoza e di Cartesio, di Heidegger e della scuola di Francoforte e di antipsichiatria – quei giovani non avevano ancora letto nulla o avevano letto Catullo e Shakespeare e Majakovskj -, giunsero quelli come Toni Negri, e si offrirono all’ammirazione dei ribelli privi di teoria. Vampiri di carne giovane, furono creduti, per troppa povertà; portatori di fallimenti personali e patologie anche gravi che sapevano occultare agli occhi dei ribelli, furono ammirati e idolatrati. Per quell’ingenuità fiduciosa che è la cosa più bella – pericolosissima – della gioventù. Costituirono una grande finzione. Una assenza di teoria e di pensiero riuscì a farsi credere presenza. E i giovani, furono obbligati a fingere anche loro. Lo sapevano già fare, come tutti i ragazzi lo sanno, fin dalla adolescenza: quando al bar con i compagni avevano finto esperienze sessuali strabilianti, o nel loggione del teatro o alla mostra d’arte avevano finto competenze mai neppure approssimate, solo per far bella figura con le ragazze.
Ma ora il gioco s’era fatto serio: e cominciarono a fingere il possesso di patrimoni teorici di studio dei classici del marxismo e dell’economia racchiusi in libri dei quali avevano a malapena visto le copertine, finsero l’anima del poeta e dell’amante esperto e sensibile, finsero un coraggio da leoni mentre tremavano come conigli. Finsero un’identità che in segreto pensavano che non avrebbero mai avuto. E andavano alle riunioni di ogni sera inanellando parole astruse solo orecchiate, e andavano a scontrarsi con la polizia celando le “chimiche” sotto le ascelle, e avrebbero voluto solo fuggire il più lontano possibile. Ma non potevano: la pena sarebbe stata l’inesistenza. La loro identità era tutta in quel distintivo di Mao sopra il maglione nero, e nella benevolenza del capo. I ribelli erano diventati seguaci passivi. E il Sessantotto finì. Negli anni successivi la finzione continuò, sempre più disperata e obbligatoria per sopravvivere nella morte di tutti i giorni. Fino a quando cominciarono i colpi di pistola e le raffiche di mitra, e i morti riempirono le prime pagine dei quotidiani. E videro la fotografia dell’amico caduto sull’asfalto, e seppero della tortura negli scantinati delle questure, e della ragazza, la più bella, la più lontana, stuprata e percossa e fratturata nelle galere dello Stato, e dell’altra, appena ventenne, sparata in pieno viso nell’attimo in cui apriva la porta della casa dove fino a poco prima dormiva, allo squillo d’un campanello all’alba. Fino a quando sconfitti dalla potenza militare dello Stato, quelli che non erano ancora riusciti a fuggire – con un senso di fallimento che rischiava di accompagnarli per tutta la vita – si guardarono allibiti.
Ora – quarant’anni dopo – i reduci festeggiano il Sessantotto alla Facoltà di Architettura di Roma. Un po’ futili un po’ irriducibili, per gioco salottiero, si scambiano lazzi e battute, l’ex del servizio d’ordine di Lotta continua, come Liguori, oggi berlusconiano, con l’esule folle e intabarrato, appena riammesso in patria. L’architetto di successo con il militante severo. E Giuliano Ferrara, educato a Mosca, ma con le labbra ancora profumate della colonia della mano del papa, ricorda che a Valle Giulia a scagliar sassi contro la polizia c’era anche lui. Altri, non hanno nostalgie ma hanno memoria. Hanno imparato dalla propria vita, e cercano ancora, questa volta con calma, e senza rabbie e finzioni, le strade della trasformazione.
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L’articolo di Fulvio Iannaco è stato pubblicato su Left del 7 marzo 2008 e – a gennaio 2018 – sul libro di Left 1968. Fu solo un inizio