Alle forze progressiste non servono capipopolo infallibili, bensì rappresentanti emersi da una militanza politica concreta. E alcuni di loro potrebbero nascere dalle piazze delle sardine, se la sinistra saprà aprire col movimento un dialogo sincero

Affidarsi ad un leader che risolva tutto, dotato di capacità superiore, non è affatto idea nuova. La ricerca, l’attesa, di un leader forte, carismatico, deciso, è caratteristica ricorrente nella Storia. Difatti tutti ricordiamo Augusto, come pure Cesare, Alessandro e Napoleone, e tuttavia sappiamo che questa è una lettura superficiale della Storia. Nessuno nasce per “provvidenza”, ma è frutto, espressione del suo tempo, nessuno avrebbe senso ed eguale successo, in condizioni storiche e sociali diverse.

Quei leader sono espressione di movimenti, sensibilità, esigenze, condizioni specifiche che ne determinano l’affermazione, e risultano coloro i quali, come singoli, meglio incarnano lo spirito del tempo, ma che si affermano grazie a condizioni, materiali e di pensiero, che sono collettivi e determinati.

Non tutti i leader, però, hanno eguali caratteristiche, qualcosa li distingue, e troppo spazio prenderebbe una trattazione ampia sul tema. Tuttavia, semplificando per quanto possibile, si possono riassumere due tipologie: il leader considerato e vissuto come condottiero, colui cui tutto è demandato, il demiurgo, il decisore, ed il leader quale riferimento di una molteplicità di persone, espressione e sintesi di pensiero collettivo.

Il primo tipo è figura che tende all’autoritarismo, all’accentramento dei poteri, alla dittatura. Per limitare l’orizzonte alla contemporaneità, pensiamo pure a figure come Mussolini, Hitler, o ai moltissimi dittatori sudamericani (benché in prevalenza fantocci). Sono queste figure sempre di stampo reazionario, di “destra”, anche quando nascono a sinistra (Stalin).

Il secondo è figura che emerge da elaborazione complessa, funge da raccordo con la società o perlomeno con i soggetti sociali di riferimento, offre rappresentanza sociale prima che politica. Non si tratta quindi di “capo”, di “comandante” cui sono affidati le sorti del suo popolo, perché quando perde quei caratteri collettivi, si riduce a Masaniello.

La sinistra ha conosciuto molti leader. E però persino il più recente e carismatico leader riconosciuto della sinistra, Berlinguer, pur ovviamente dotato di capacità di analisi ed elaborazione originale, per intanto nasceva dall’azione e militanza politica concreta, dalla carne viva dell’impegno e non in laboratorio (o su aiuto esterno di potentati economici, finanziari, bancari ecc.), ma era espressione e sintesi, anche quando audace e solitaria, di una elaborazione ricca e collettiva che sgorgava dal radicamento nel Paese e nella società che si esprimeva attraverso decine di altre personalità e figure politiche troppo spesso dimenticate (Amendola, Ingrao, Chiaromonte, Lombardo Radice, Alicata, Di Vittorio ecc.).

L’attesa e ricerca del leader infallibile, cui tutto è demandato, ha quindi un carattere sempre negativo, e ne deriva un danno per la democrazia, in senso ampio, e per la sinistra nello specifico, perché ciò comporta la rinuncia alla elaborazione collettiva, alla divisione dei compiti e dei poteri, con l’affidamento demiurgico al “capo” del potere di decidere.

Queste considerazioni brevemente e semplicisticamente riassunte, ampiamente opinabili, e di natura prepolitica, sono alla base della diffidenza che porta a ritenere dannosa alla democrazia la scelta di trasformare i partiti “novecenteschi” (non modernizzarli, sia chiaro) da contenitori di elaborazione collettiva – il famoso pensiero collettivo – a strumenti affidati alle volontà di un leader, cioè trasformare i partiti da grandi strumenti collettivi di trasformazione della società in apparati affidati alle scelte di singoli o a loro supporto. Non a caso si deve a tale visione la nascita e l’affermarsi di partiti “personali”, da Forza Italia a Italia Viva, da Fratelli d’Italia alla Lega. Partiti cioè che si identificano e traggono ragion d’essere esclusivamente nel leader.

Uno degli errori, certamente non l’unico, che la sinistra ha commesso in questi tristi decenni, è stato quello di non aver contrastato questa nefasta visione. Anzi, si è scientemente perseguito questo piano culturale (il veltronismo), teorizzando erroneamente il partito liquido, nell’illusione che questo fosse lo strumento “moderno” che consentisse il superamento degli ostacoli che impedivano il cambiamento e l’alternanza al governo del Paese.

Da questa supina convinzione ne è derivato l’allontanamento di grandi masse di popolo storicamente vicine alla sinistra, per cui rappresentavano energia vitale, il ridimensionarsi del ruolo propositivo e di stimolo degli intellettuali (ormai sempre più relegati in circoli d’intellighenzia o isolati e ininfluenti), fenomeni che non possono essere corretti da surrogati di democrazia (diretta?) quali le primarie, che invece accentuano la personalizzazione.

Non possono convincere quindi le illusorie scorciatoie che ne derivano, che vanno dagli impiastri ipotizzati nell’architettura costituzionale, al preferire sistemi elettorali maggioritari e premi di maggioranza, come pure l’esaltato sistema elettorale nelle amministrative (perché mai un sindaco eletto al secondo turno con il 60% di voti ma espressi da solo un 20% di votanti dovrebbe essere più rappresentativo, e quindi più rispondente a criteri di democrazia, di un candidato non eletto al primo turno, pur con il 49% dei voti, ma espressi magari dal 70% degli elettori?).

Ecco quindi che anche oggi affidarsi alla ricerca affannosa di nuovi leader, persino a sinistra, risulta del tutto errato, perché questi non possono che emergere ed avere autorevolezza, oggi come sempre, solo se partoriti dal vivo dell’azione nella società e dalla capacità di promuovere e sviluppare elaborazione collettiva. Risulta evidente perciò che bisogna riprendere una pratica politica rinnegata per troppi anni, e contrastare, prima di tutto culturalmente, quelle visioni falsamente “nuove” e che hanno prodotto lo svilimento e l’impoverimento politico in cui siamo immersi.

Ma veniamo alla novità degli ultimi tempi: il movimento delle sardine, e diciamo subito, a scanso di equivoci, che si tratta di una novità buona, da condividere, supportare, elogiare. Anzi, meno male che sono spuntate le sardine a smuovere le acque stagne della sinistra e a dare un contributo, forse decisivo, per evitare la sconfitta nelle amministrative in Emilia Romagna.

E tuttavia non si può accettare l’entusiasmo acritico che si è fin qui diffuso a sinistra (che maschera in realtà la propria perdurante incapacità a essere promotori e animatori di piazze) e non vedere i rischi che tale fenomeni portano in seno. Si tratta di movimento con giuste parole d’ordine, che tuttavia nasce con l’oggettiva e scontata genericità dell’impianto. Tant’è vero che chiunque ci si può riconoscere, basta non essere fascista (ultimamente pare neanche quello). Quanti di questi si mobiliterebbero però sull’Ilva? Quanti chiederebbero una patrimoniale seria? Quanti ancora scenderebbero in piazza per la sanità, la riforma fiscale, ecc? Certo, non è compito di un movimento, ma di un partito. Appunto.

Allora la giusta, ovvia e insistente sottolineatura dell’essere apartitico riecheggia la nascita di un altro movimento, i 5 Stelle, anche essi nati con giuste parole d’ordine, e anche sufficientemente di sinistra (acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività: do you remeber?). La genericità delle parole d’ordine, non legate ad un progetto, ad un’idea di sviluppo e di società, ha trasformato quel movimento, i 5S, da apartitico ad antipartitico, da “vergine e puro” a obliquo e ambiguo (destra e sinistra sono superati), consentendone l’alleanza dapprima con la destra salviniana e poi disinvoltamente con il Pd e l’indecifrabile e indefinita Leu.

Allora la sinistra deve evitare come peste innanzitutto due errori ugualmente fatali: tentare di mettere cappello o accodarsi e inseguire. La sinistra deve essere capace, stavolta, né d’inseguire né di tentare di appropriarsi delle piazze da altri vitalizzate, ma di tornare a dialogare, intersecarsi, farsi sponda e spalla, arricchirsi di temi e suggestioni e arricchire essa stessa quelle piazze offrendo la propria visione di mondo: allora, forse e lentamente, tornerà a svolgere il proprio ruolo storico.

E allora sì che da quelle piazze potrebbero emergere nuovi leader, come nuove interpreti del tempo e espressione delle nuove esigenze e problematiche. Si tornerebbe cioè non ad attendere la nascita “divina” di un nuovo leader, ma si coltiverebbe.


* Lionello Fittante è cofondatore dell’associazione politico-culturale #perimolti, ed è membro del Movimento politico èViva