Il film del regista coreano Bong Joon-ho ha vinto quattro premi Oscar tra cui quelli per il miglior film e la miglior regia. Un racconto originale sul conflitto di classe

Ha vinto quattro premi Oscar “Parasite”, il film del visionario Bong Joon-ho, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, candidato dalla Corea del Sud ai premi Oscar come miglior opera straniera.

Una famiglia povera – padre, madre e due ragazzi – vive in un seminterrato di Seul, la cui finestrella affaccia su un vicolo cieco, latrina per ubriaconi. Tutti campano alla giornata, cercando la connessione gratuita, preparando cartoni per le pizze a domicilio e aggirando le difficoltà con espedienti illeciti, ma necessari alla sopravvivenza.

Il figlio (Choi Woo-Sik), su consiglio di un amico, scaltramente si finge insegnante di inglese, per dare lezioni ad una ragazza, primogenita di una famiglia facoltosa, residente in una villa, che domina la città dall’alto. Non solo verrà creduto, assunto e lodato, ma presto i suoi suggerimenti saranno ingenuamente accolti. Riesce così a far assumere la sorella come baby-sitter, il padre (Song Kang-Ho) come autista e la madre come cuoca, ribaltando l’organico della casa con la complicità degli altri membri della sua famiglia.

I poveri possono ora godere degli agii dei ricchi, insediandosi nei loro eleganti spazi, approfittando del loro benessere, condividendone la quotidianità, ma le sorprese sono dietro l’angolo, anzi sotto i piedi, ed una sequela di eventi sconvolgerà lo status degli uni e degli altri fino alle estreme conseguenze; anche perché i ricchi sentono l’odore dei poveri e si tengono a distanza, anche quando sono eccezionalmente contigui.

Film potente, teso, impeccabile nella messa in scena, nella composizione dei piani visivi, nella conduzione degli attori. Difficile etichettarlo quanto ascriverlo a un genere. Favola nera, commedia, dramma sociale, thriller pulp, ma anche Revenge tragedy, percorso labirintico, satira crudele, spaventoso meccanismo ad incastro e angosciante puzzle della contemporaneità, in cui ogni tessera tiene con il fiato sospeso.

Una libertà di narrazione e di invenzione sul conflitto di classe e gli automatismi del capitalismo, impensabile alle nostre latitudini, frutto della tradizione cinematografica locale oltre che del talento autoriale. Brutalità e sangue hanno il pregio della metafora universale. La regia è un algido, raffinato, dissacrante “contenimento” di una piena travolgente di situazioni e immagini, che esplode nel finale e denuda con lucida precisione l’inespugnabile divario tra classi sociali, la vertigine della Comédie humaine. Se Park Chan-wook e Kim Ki-duk ci bruciavano il cuore, Joon-ho infiamma la mente. Imperdibile.

La recensione di Daniela Ceselli è stata pubblicata su Left dell’8 novembre 2019