Era la Casa di Valerio, più che di Carla, la mamma. Valerio era custodito in quella donna. Più che lui, la sua passione. Quella donna, sconosciuta per noi, portava in viso i segni dell’attesa degli assassini, dell’agguato, della morte, della perdita del figlio. Il suo viso e il suo corpo ad aspettarci sul cancello di via Monte Bianco 114 erano il manifesto di un dolore materno e, insieme, di una rabbia concentrata. Quel volto ci consegnava l’obbligo dell’ossequio. Un duplice ossequio: verso la custode del dolore e della memoria. Carla era la strada più rapida per incontrare Valerio Verbano nel momento stesso in cui gli assassini lo hanno ucciso. Non che non ci fossero i momenti del ricordo. I più grandi, che poi avranno avuto all’epoca neanche trent’anni o poco più, raccontavano la storia del compagno Valerio come avrebbero fatto i partigiani mentre trasmettevano l’esempio di un loro compagno ucciso. Non c’era il tempo degli anni a separare e difendere dal calore e dal clamore di quei colpi di pistola. La sua era una figura oltre il tempo, strappata alla vita durante la nostra vita, una figura sottratta alla progressività della Storia per non farci perdere di vista la contemporaneità dello scontro e la nettezza permanente della barricata. E la memoria è vorace di senso, di significato sì, ma anche dei passi minuti su cui cammina. Volevamo ricostruire i dettagli dell’agguato, vedere i codardi che ingannano Carla, che si insinuano nella casa come “amici di Valerio”.
La gente per bene accoglie, la gente per bene ha fiducia, la gente per bene rimanda al mondo dell’impossibile la vigliaccheria dei fascisti. I genitori vengono minacciati con una pistola, gli incappucciati li legano e aspettano il ritorno di Valerio. Carla spera che Valerio non torni, spera che succeda qualcosa che cambi le sue abitudini, arriva a sperare che possa cadere con il motorino e farsi male al punto da non tornare a casa, magari si rompe una gamba, pensa la madre, magari va all’ospedale, pensa una madre. Quando Carla racconta i pensieri dell’attesa, il dolore si impasta con la rabbia. Hanno ucciso lui e torturato i genitori con l’attesa della morte del figlio. Per un momento sei li, entri con Valerio e fai il tuo dovere di antifascista. Tutti liberi, tutti in vita, tranne i vigliacchi. Giustizia è stata fatta.
Aveva la vostra età, ci dice Carla. E marcia con noi, pensiamo.
Me l’hanno ucciso davanti agli occhi, dice Carla. Lo vendicheremo, pensiamo.
Valerio combatte, è uno contro tre. Disarmato contro tre uomini armati. Ne disarma uno, un altro spara. È la storia dei comunisti, il coraggio è nell’ideale. Ci vuole coraggio a pensare a un mondo senza classi sociali, ci vuole coraggio ad essere partigiani, ci vuole coraggio a dire che siamo tutti uguali. La rivoluzione non è un pranzo di gala, ci insegnavano i grandi, quelli di trent’anni o poco più. Vuol dire la rivoluzione ha i suoi costi, uno si chiama vita. Ci vuole coraggio ad essere come Valerio. Pensiamo.
Una madre e un padre vengono liberati. Il figlio sta morendo. Non c’è stato nessun incidente con il motorino, Valerio è stato colpito e sta lì che muore. Una madre non urla quando un figlio sta per morire. Non bisogna mettere spavento ai figli, va tutto bene amore mio, arriva l’ambulanza, va tutto bene amore.
Deve essere lì che la riga ha iniziato a scavare il viso. Il terrore, il dolore e la speranza. Troppa materia che non si parla, è lì si che si fa la crepa che ogni volta ci racconta.
Ora siamo in tanti. I grandi srotolano gli striscioni. Valerio vive. Niente resterà impunito. Autonomia operaia in fabbrica e quartiere. La parola è migrata, gli altoparlanti raccontano l’assassinio di Valerio e i suoi mandanti, i fascisti, lo Stato.
Carla è rientrata in casa. Dove c’è la camera di Valerio. Dove c’è il divano che ha ospitato la sua morte. Dove ci sono la luce, gli odori e i rumori del giorno in cui i vigliacchi ce l’hanno portato via.
Prima di tornare a casa, finito il corteo, molti di noi tornano a via Monte Bianco. Qualcuno tocca la bandiera rossa, qualcuno accarezza la foto di Valerio, altri salutano con il pugno chiuso.
Il più grande di noi ha un pennarello, tira fuori un pezzo di carta e scrive “Unde origo inde salus. Valerio Vive”, da dove l’origine da lì la salvezza. Lo mette ai piedi della lapide. «Nasciamo qui, non è vero?», e sorride, ma è un pianto.
Per Valerio e Carla, con amore.