Il 17 gennaio di 10 anni fa, nel 2010, a Milano veniva presentato un manifesto programmatico che sembrava poter scuotere, dalle fondamenta, le questioni inerenti l’immigrazione in Italia. Pochi giorni prima c’era stata a Rosarno, in Calabria, la rivolta delle persone sfruttate nei campi e attaccate da ‘ndranghetisti e razzisti. Non era la prima volta che capitava, ma in quel caso i braccianti avevano deciso di reagire con un corteo che attraversò il paesone nella Piana di Gioia Tauro, devastando automobili; erano persone stanche di subire sfruttamento e soprusi ma a cui l’unica risposta che giunse fu una violenta carica delle forze dell’ordine e poi la deportazione in altre aree del Paese. Ma gli stessi lavoratori, intervistati, sapevano che una soluzione non poteva passare per lo scontro violento. Le immagini e i video divennero virali nei social e ci furono uomini e donne, autoctoni e migranti che cominciarono, anche attraverso un uso intelligente di Fb, ad elaborare una risposta. La proposta fu semplice quanto geniale e partiva da un quesito solo apparentemente utilitaristico. Cosa accadrebbe in Italia se, dando retta agli xenofobi che già allora si erano fatti sentire attraverso i “pacchetti sicurezza” di maroniana memoria e l’assenza di risposte sensate del mondo progressista, tutti gli uomini e le donne di origine straniera avessero deciso di tornare a casa propria? Non solo si sarebbero bloccati interi comparti dell’economia, dal lavoro di cura, alla ristorazione, all’agricoltura, alla logistica, all’edilizia eccetera, ma si sarebbe persa una parte fondamentale e trainante per il futuro dell’Italia stessa. L’idea a dire il vero era già maturata in Francia e stava prendendo piede in altri Paesi europei alle prese con le stesse dinamiche e ovviamente voleva essere soprattutto una provocazione sociale. Si scelse una data, quella del primo marzo, come simbolo un fiocco giallo e un insieme di rivendicazioni che tuttora non hanno ricevuta risposta adeguata. Si scelse di fare del Primo Marzo una giornata non violenta di sciopero bianco, di astensione dagli acquisti, di mobilitazione pacifica e di incontro in cui superare il binomio “noi /loro”. Si scelse di creare uno spazio aperto che chiunque, con le proprie identità poteva far proprio a condizione di non usarlo come ambito da monopolizzare e in cui questioni come la riforma della legge sulla cittadinanza, il rifiuto dei rimpatri forzati, di ogni forma di sfruttamento – perché chi lavora deve essere retribuito in maniera eguale, indipendentemente dalla provenienza – l’investimento in politiche per la convivenza, il rifiuto di ogni forma di razzismo e discriminazione, la chiusura dei centri di detenzione (allora Cie oggi Cpr), tante domande e tante aspirazioni. Immediatamente si formarono, quasi spontaneamente comitati “Primo Marzo” in decine di città, si creò una rete si tentò di coordinare il lavoro nei territori rispettandone l’autonomia. Il progetto riscosse anche una certa attenzione mediatica, a parlare nei talk show andarono finalmente anche i diretti e le dirette interessate, soprattutto giovani di quelli che già definivamo con un termine che andava stretto “seconde generazioni”. Il coinvolgimento anche nelle realtà di provincia fece emergere un tessuto sociale nuovo, ricco, plurale e meticcio, in cui era contemporaneamente complesso e facile stare e inserirsi, era sufficiente garantire il rispetto del pluralismo interno. E va detto, anche se sembra di parlare di un’età dell’oro, si respirò anche una forma di simpatia diffusa verso questo movimento che non urlava ma proponeva senza rinunciare ai propri contenuti e ad una necessaria radicalità. Si provò a proporre anche ai sindacati confederali di fare propria questa data per indire una giornata di sciopero. La risposta fu tiepida e forse miope, ci fu chi la bollò col marchio di “sciopero etnico” e chi pensava che i tempi, in un periodo in cui già arrivavano i primi morsi della crisi economica, non erano adatti, né maturi. Il sindacalismo di base reagì alla proposta in maniera più possibilista ma di fatto scioperare era impossibile a causa delle leggi sulla rappresentanza sindacale e in virtù del fatto che per persone il cui salario era già più basso dei lavoratori italiani, una giornata di sciopero era un lusso. Eppure in molte e in molti risposero positivamente, non si recarono al lavoro, evitarono di fare acquisti, fecero sentire il proprio peso non solo economico ma sociale. E furono tante le piazze che divennero teatro di discussione pubblica come oggi forse sarebbe difficile effettuare. Era l’epoca in cui l’allora sindaco di Treviso, Gentilini suggeriva (ma diceva che era una battuta) che bisognava vestire gli immigrati da leprotti, per poi poter dar loro la caccia. Ma si discuteva e si tentava di costruire opposizione anche culturale alla barbarie che già si andava imponendo. La vicenda non durò un solo anno, per molto tempo ad ogni Primo Marzo, ma ogni anno in maniera più flebile e poco rappresentativa, si organizzarono manifestazioni, incontri, giornate di richiamo a tale percorso, per tanto tempo si provò a far capire che “una giornata senza di noi” si poteva tradurre in un paese piatto, senza futuro, privo di prospettive anche culturali e per certi versi destinato a perdere umanità. E se avessimo bisogno adesso di un Primo Marzo? Magari più maturo e capace di confrontarsi con la politica, con il circuito mediatico, con le diverse generazioni che si incrociano, ricostruendo un messaggio comune? Il contesto è cambiato: oggi un Primo Marzo sarebbe davanti ai porti, ai cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria resi ancora più ghetti dai vari governi che si sono succeduti. Si tratterebbe di tornare ad unire gli sforzi che si continuano a compiere nei campi o nella logistica con le rivendicazioni per portare a rimuovere le leggi securitarie che si sono accumulate nel Paese che risalgono a prima del 2010, come la Bossi Fini e a dopo, con tutte le normative messe in atto per mantenere in condizioni di subalternità 5,4 milioni di persone, l’8,7% della popolazione a cui vanno aggiunti i tanti e le tante che, in quanto non garantiti, anche se “italiani Doc” non rientrano in quelli che tanto Salvini quanto l’intero impianto neoliberista non saranno mai capaci di difendere. Si tratterebbe di tornare a far seriamente politica a sinistra e su contenuti forti e di prospettiva. A questo forse servirebbe anche un nuovo “Primo Marzo”. P.S. Per una curiosa coincidenza questo primo marzo 2020 entrerà in vigore una nuova legge sull’immigrazione che faciliterà ingressi soprattutto per sopperire a riempire comparti occupazionali che lamentano scarsità di persone. Chiaramente non è la agognata libertà di circolazione e corrisponde ad una esigenza stringente del mercato del lavoro. Si tratta di prospettive legate sia al lavoro altamente qualificato sia a mansioni meno retribuite ma comunque in condizioni di vita certamente migliori e con maggiori garanzie anche per il proprio futuro. Il Paese nel 2035 potrebbe aver bisogno, a causa del progressivo invecchiamento e della bassa natalità di circa 4 milioni di persone abili al lavoro e pronte a sostituire gli attuali occupati. Ah dimenticavamo, non si tratta dell’Italia ma della Germania.

Il 17 gennaio di 10 anni fa, nel 2010, a Milano veniva presentato un manifesto programmatico che sembrava poter scuotere, dalle fondamenta, le questioni inerenti l’immigrazione in Italia. Pochi giorni prima c’era stata a Rosarno, in Calabria, la rivolta delle persone sfruttate nei campi e attaccate da ‘ndranghetisti e razzisti. Non era la prima volta che capitava, ma in quel caso i braccianti avevano deciso di reagire con un corteo che attraversò il paesone nella Piana di Gioia Tauro, devastando automobili; erano persone stanche di subire sfruttamento e soprusi ma a cui l’unica risposta che giunse fu una violenta carica delle forze dell’ordine e poi la deportazione in altre aree del Paese. Ma gli stessi lavoratori, intervistati, sapevano che una soluzione non poteva passare per lo scontro violento. Le immagini e i video divennero virali nei social e ci furono uomini e donne, autoctoni e migranti che cominciarono, anche attraverso un uso intelligente di Fb, ad elaborare una risposta. La proposta fu semplice quanto geniale e partiva da un quesito solo apparentemente utilitaristico.

Cosa accadrebbe in Italia se, dando retta agli xenofobi che già allora si erano fatti sentire attraverso i “pacchetti sicurezza” di maroniana memoria e l’assenza di risposte sensate del mondo progressista, tutti gli uomini e le donne di origine straniera avessero deciso di tornare a casa propria? Non solo si sarebbero bloccati interi comparti dell’economia, dal lavoro di cura, alla ristorazione, all’agricoltura, alla logistica, all’edilizia eccetera, ma si sarebbe persa una parte fondamentale e trainante per il futuro dell’Italia stessa. L’idea a dire il vero era già maturata in Francia e stava prendendo piede in altri Paesi europei alle prese con le stesse dinamiche e ovviamente voleva essere soprattutto una provocazione sociale. Si scelse una data, quella del primo marzo, come simbolo un fiocco giallo e un insieme di rivendicazioni che tuttora non hanno ricevuta risposta adeguata. Si scelse di fare del Primo Marzo una giornata non violenta di sciopero bianco, di astensione dagli acquisti, di mobilitazione pacifica e di incontro in cui superare il binomio “noi /loro”. Si scelse di creare uno spazio aperto che chiunque, con le proprie identità poteva far proprio a condizione di non usarlo come ambito da monopolizzare e in cui questioni come la riforma della legge sulla cittadinanza, il rifiuto dei rimpatri forzati, di ogni forma di sfruttamento – perché chi lavora deve essere retribuito in maniera eguale, indipendentemente dalla provenienza – l’investimento in politiche per la convivenza, il rifiuto di ogni forma di razzismo e discriminazione, la chiusura dei centri di detenzione (allora Cie oggi Cpr), tante domande e tante aspirazioni. Immediatamente si formarono, quasi spontaneamente comitati “Primo Marzo” in decine di città, si creò una rete si tentò di coordinare il lavoro nei territori rispettandone l’autonomia. Il progetto riscosse anche una certa attenzione mediatica, a parlare nei talk show andarono finalmente anche i diretti e le dirette interessate, soprattutto giovani di quelli che già definivamo con un termine che andava stretto “seconde generazioni”. Il coinvolgimento anche nelle realtà di provincia fece emergere un tessuto sociale nuovo, ricco, plurale e meticcio, in cui era contemporaneamente complesso e facile stare e inserirsi, era sufficiente garantire il rispetto del pluralismo interno. E va detto, anche se sembra di parlare di un’età dell’oro, si respirò anche una forma di simpatia diffusa verso questo movimento che non urlava ma proponeva senza rinunciare ai propri contenuti e ad una necessaria radicalità. Si provò a proporre anche ai sindacati confederali di fare propria questa data per indire una giornata di sciopero. La risposta fu tiepida e forse miope, ci fu chi la bollò col marchio di “sciopero etnico” e chi pensava che i tempi, in un periodo in cui già arrivavano i primi morsi della crisi economica, non erano adatti, né maturi.

Il sindacalismo di base reagì alla proposta in maniera più possibilista ma di fatto scioperare era impossibile a causa delle leggi sulla rappresentanza sindacale e in virtù del fatto che per persone il cui salario era già più basso dei lavoratori italiani, una giornata di sciopero era un lusso. Eppure in molte e in molti risposero positivamente, non si recarono al lavoro, evitarono di fare acquisti, fecero sentire il proprio peso non solo economico ma sociale. E furono tante le piazze che divennero teatro di discussione pubblica come oggi forse sarebbe difficile effettuare. Era l’epoca in cui l’allora sindaco di Treviso, Gentilini suggeriva (ma diceva che era una battuta) che bisognava vestire gli immigrati da leprotti, per poi poter dar loro la caccia. Ma si discuteva e si tentava di costruire opposizione anche culturale alla barbarie che già si andava imponendo. La vicenda non durò un solo anno, per molto tempo ad ogni Primo Marzo, ma ogni anno in maniera più flebile e poco rappresentativa, si organizzarono manifestazioni, incontri, giornate di richiamo a tale percorso, per tanto tempo si provò a far capire che “una giornata senza di noi” si poteva tradurre in un paese piatto, senza futuro, privo di prospettive anche culturali e per certi versi destinato a perdere umanità. E se avessimo bisogno adesso di un Primo Marzo? Magari più maturo e capace di confrontarsi con la politica, con il circuito mediatico, con le diverse generazioni che si incrociano, ricostruendo un messaggio comune? Il contesto è cambiato: oggi un Primo Marzo sarebbe davanti ai porti, ai cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria resi ancora più ghetti dai vari governi che si sono succeduti. Si tratterebbe di tornare ad unire gli sforzi che si continuano a compiere nei campi o nella logistica con le rivendicazioni per portare a rimuovere le leggi securitarie che si sono accumulate nel Paese che risalgono a prima del 2010, come la Bossi Fini e a dopo, con tutte le normative messe in atto per mantenere in condizioni di subalternità 5,4 milioni di persone, l’8,7% della popolazione a cui vanno aggiunti i tanti e le tante che, in quanto non garantiti, anche se “italiani Doc” non rientrano in quelli che tanto Salvini quanto l’intero impianto neoliberista non saranno mai capaci di difendere. Si tratterebbe di tornare a far seriamente politica a sinistra e su contenuti forti e di prospettiva. A questo forse servirebbe anche un nuovo “Primo Marzo”.

P.S. Per una curiosa coincidenza questo primo marzo 2020 entrerà in vigore una nuova legge sull’immigrazione che faciliterà ingressi soprattutto per sopperire a riempire comparti occupazionali che lamentano scarsità di persone. Chiaramente non è la agognata libertà di circolazione e corrisponde ad una esigenza stringente del mercato del lavoro. Si tratta di prospettive legate sia al lavoro altamente qualificato sia a mansioni meno retribuite ma comunque in condizioni di vita certamente migliori e con maggiori garanzie anche per il proprio futuro. Il Paese nel 2035 potrebbe aver bisogno, a causa del progressivo invecchiamento e della bassa natalità di circa 4 milioni di persone abili al lavoro e pronte a sostituire gli attuali occupati. Ah dimenticavamo, non si tratta dell’Italia ma della Germania.